I nostri pensieri infami
Edoardo Albinati scende negli abissi dell’essere umano offrendo se stesso come campo di battaglia e dichiarandosi “indifendibile”. I naufraghi dell’Aquarius, la pacchia e la perdita della ragione
La nostra mente, davanti al mondo, dentro il mondo, viene attraversata e tormentata anche, e spesso, dai pensieri sbagliati. Dalle idee ripugnanti, che balenano un attimo e ci accendono lo sguardo e restano segrete, ma anche dai pensieri già pensati e praticati da altri, che ci sembrano indicibili ma ci fanno sogghignare, con la parte peggiore di noi, con la parte più bassa, anche più diretta, più reattiva, più attratta dallo specchio deformante di una barbarie che è costitutiva della profondità, dell’oscurità degli esseri umani.
I pensieri infami spesso si fondano su un’idea di giustizia e di torto subìto, quando sentiamo sgretolarsi la benevolenza, la correttezza, l’apertura mentale, quando tutta la ragionevolezza insomma ci sembra totalmente insignificante e imbelle.
Edoardo Albinati, scrittore, è stato attraversato da un pensiero infame, e non l’ha ricacciato nell’oscurità degli impulsi segreti, ma l’ha svelato, durante un incontro pubblico, di fronte a giornalisti che l’hanno ripreso: il suo pensiero infame, di cui ha immediatamente dichiarato di vergognarsi, è stato raccolto da Matteo Salvini, ministro dell’Interno, e rilanciato per denunciare la ferocia e la ripugnanza di un intellettuale (appartenente a una vaga categoria umana già piuttosto detestata e disprezzata) che si augura la morte di un essere umano. Questo è accaduto, questo pensiero ha attraversato la mente di Albinati e, di fronte allo sgomento di molti (anche il mio), è stato da lui pronunciato, nei sotterranei della libreria Feltrinelli in piazza Duomo a Milano, l’estate scorsa, mentre alla nave Aquarius, in mezzo al mare con seicento naufraghi, veniva negato lo sbarco.
Idee ripugnanti, che balenano un attimo e ci accendono lo sguardo e restano segrete. Una barbarie costitutiva della nostra profondità
Sappiamo che cos’è stato, sappiamo che cosa diceva e dice Matteo Salvini; soprattutto: “La pacchia è finita”, che può rientrare nei pensieri infami, ancora di più se pronunciata da un ministro dell’Interno di fronte a quel tipo di “pacchia”, e a quella “crociera”. Ma non è certo questo il punto, non è una inutile classifica di infamità questa, ma il tentativo di Edoardo Albinati di scavare dentro i pensieri bassissimi per raccontare chi siamo: e quindi è la chiamata verso chi legge questo libro a riflettere sul nostro personale “dio del massacro”, come l’ha chiamato la scrittrice francese Yasmina Reza in una sua commedia. Non siamo dentro una commedia, ma spesso la mettiamo in scena con la nostra infamità (nascosta, trattenuta, liberata, sbandierata) e anche con i nostri tentativi di negarla. Edoardo Albinati invece, ci ha scritto sopra un libro con un titolo molto preciso: “Cronistoria di un pensiero infame” (Baldini+Castoldi): un tempo si sarebbe chiamato pamphlet, un libro non programmato ma nato da quell’occasione, da quella polemica (a cui Albinati ha risposto sempre con il silenzio), ma soprattutto nato da quel suo pensiero infame: “Sapete, sono arrivato a desiderare che morisse qualcuno, su quella nave. Ho desiderato che morisse un bambino sull’Aquarius”.
“Sono arrivato a desiderare che morisse qualcuno, su quella nave. Ho desiderato che morisse un bambino sull’Aquarius”
Albinati comincia così la sua confessione: “Indifendibile. Non voglio difendermi. Non sono difendibile. Quello che ho pensato è indifendibile. Augurarmi la morte di un altro essere, per di più innocente, è una posizione indifendibile. Sempre e comunque. Vorrei però spiegare, spiegare e così io stesso capire, il perché quella cosa lì, dopo averla pensata (forse per cinque secondi? dieci?), io l’abbia anche detta, l’abbia riferita ad altri in modo brutale ed esplicito, e così difendere il mio diritto o piuttosto il mio dovere di confessare una cosa inconfessabile, una cosa infame da me pensata”. Indifendibile, è vero. Poteva sembrare un paradosso, una provocazione, ma Albinati non ha invocato questa attenuante. E non ha chiamato nessuno in correità, non ha detto: chi non l’ha pensato?, perché allora forse ci saremmo alzati in piedi in tanti, che non l’abbiamo mai nemmeno per un secondo pensato o desiderato (ma pensiamo e desideriamo altre cose infami, e ce ne vergogniamo, oppure no, semplicemente perché non le diciamo).
Il punto è un altro ed è terribilmente interessante e ci riguarda tutti perché riguarda le nostre relazioni, le nostre discussioni, la vita politica, la vita sentimentale, la vita in sé quando viene a contatto con la vita degli altri, il desiderio di rivalsa e di giustizia e anche il pericolo di cadere nel buio del corpo a corpo senza ragionamento, ma con addosso il demone dell’avere ragione: “La sola cosa che vorrei illustrare è com’è che di punto in bianco si diventi una bestia, anche per soli dieci secondi, da quale scuola venga fuori quel cinismo e perché si venga tentati dall’impiegarlo, i suoi vantaggi e i suoi svantaggi, e infine in cosa consista il compito di uno che con le idee e i sentimenti (oltre che averne di propri) ci lavora”. Quel giorno Albinati stava presentando un altro libro, un reportage scritto insieme alla moglie Francesca D’Aloja, “Otto giorni in Niger”, e lei gli ha detto: c’è una parte oscura in te. C’è qualcosa che tieni a bada ma che quando affiora ti fa distruggere tutto, anche le ragioni della tua felicità, il rispetto, il mio amore per te.
Che cos’è questa violenza, questo desiderio di fucilazioni, di rese dei conti, di bagni di fango e perfino di sangue?
La parte oscura non appartiene solo ad Albinati, ma a tutti noi, e ci fa distruggere rapporti, chiudere discussioni senza essere riusciti a spiegare niente, a volte ci impedisce di capirci anche a tavola con i nostri famigliari, le persone che amiamo di più al mondo, perché all’improvviso c’è un vetro che ci separa: di qua “gli intellettuali”, in senso spregiativo, di là quelli con il polso della vita reale, e spiaccicata contro il vetro la parte oscura di entrambi, e in entrambi l’idea di essere disprezzati dall’altro per i motivi sbagliati. Uno scrittore ha un modo in più per sfogare e raccontare la parte oscura, costruendo personaggi o mettendo a nudo se stesso con lo schermo della finzione. E così confessare l’inconfessabile, rivelare che cosa c’è dentro gli esseri umani.
Albinati nel momento della rivelazione del pensiero infame era uno scrittore, certo, però non lo era più. Era solo un uomo che confessava un suo pensiero, desiderio mostruoso di pochi secondi, la reazione eccessiva che, secondo il fantasma di suo madre e secondo qualunque regola di buon senso, lo stava mettendo “dalla parte del torto”. Torto marcio. Anche “la pacchia è finita” è una reazione, un commento che mette un uomo (un ministro!, le cui parole producono conseguenze reali sulle vite delle persone, non soltanto una discussione) dalla parte del torto: ma quella reazione solletica, e in fondo entusiasma chi adesso, davanti a una nave in mezzo al mare carica di persone che gli ricordano quelle che spacciano droga o ciondolano sotto il suo portone e spaventano la figlia, quello che mi ha rubato la borsa, quelli che hanno reso il nostro quartiere pericoloso, desidera che qualcuno “faccia finire la pacchia”.
Nascosto dietro un pensiero infame c’è quasi sempre un pensiero rispettabile, e qualcosa di più, un bisogno o una paura, o un diritto che non è stato rispettato. Ed è necessario occuparsene, non farli sentire trascurati e denigrati, altrimenti finirà tutto di nuovo in mano alla parte oscura di noi. La parte oscura, il demone, il proprio rancore, l’indicibile, da dove arrivano? Sono sempre stati qui, acquattati, in attesa di venire scatenati da qualcosa di esterno? Albinati racconta anche le botte date e prese da un automobilista in doppia fila che ha cercato di rompergli l’osso del collo (lì i demoni erano due, il suo demone esasperato e il demone incazzatissimo dell’automobilista in doppia fila a telefonare, tutto cominciato con un “Ma lo vedi dove cazzo ti sei messo?”), e elenca gli insulti che ha ricevuto per il suo pensiero infame. Ne annoto qui solo qualcuno: sinistronzo, vermiciattolo pieno di merda, Totò Riina in confronto era un nobiluomo, pure un pedofilo ti schiferebbe piddino di merda, va fucilato di schiena come i traditori, radicalshit.
Che cos’è questa violenza, questo desiderio di fucilazioni, di rese dei conti, di bagni di fango e perfino di sangue? Sono tutti pensieri e parole infami, di gente, come ha scritto Albinati, “ammalata d’odio”, e viene voglia di rinunciare, di spegnere tutto e non pensarci più. Invece è proprio qui che bisogna spingersi, dentro questa forza cieca che ci prende. “Uno scrittore deve scavare nello sporco, e rivelare cosa c’è sotto, lo sporco degli altri ma prima di tutto il proprio, il proprio rancore, la propria parte oscura, il demone”. L’unico modo possibile allora è partire da sé, offrire se stessi come campo di battaglia. “La mia istantanea operazione, sul piano mentale, si serviva dei medesimi parametri impietosi adoperati in modo sistematico sul piano della realtà effettiva dai nostri governanti (…) Con la mia uscita infelice io li stavo scavalcando a destra, andavo ben più a destra di loro, andavo fino al fondo, al fondo della notte, al nero, alla radice, all’estrema conseguenza del nichilismo da una parte come del fanatismo religioso dall’altra: la morte gratuita, il sacrificio umano”. Anche se non si tratta di “scavalcare a destra” o a sinistra, ma solo di scendere più in basso in questo fondo della notte. Albinati, che si è dichiarato indifendibile, ha offerto se stesso come campo di battaglia, ma è molto difficile arrivare fino al centro di quella forza che ti prende e ti trasforma “in una bestia”. Attraverso un misto di esasperazione, di ragione e torto, di cinismo e anche di desiderio di giustizia e di generalizzazione: la costruzione di un nemico da sconfiggere ciecamente. Anche un’idea di disprezzo.
Albinati ha preso dall’abisso un pensiero sconcio e invece di rivestirlo di ipocrisia lo ha svelato con un atto estremo di pubblica onestà
Albinati analizza l’ondata di disprezzo che ha ricevuto in cambio del suo pensiero infame, il generico disprezzo per “gli intellettuali” come categoria umana (nel suo caso anche cattolico per il solo fatto di avere scritto un libro intitolato “La scuola cattolica”), e però non riesce a nascondere il suo personale disprezzo per i giornalisti, come categoria umana: giornalisti schierati comandati da qualcuno che li fa rigare dritto, abituati a servire e a essere uguali un giorno dopo l’altro, così abituati a servire che non riescono a concepire l’esistenza di qualcuno che non sia servile, scrive. Ma l’uso che fa Albinati del termine “giornalisti” assomiglia molto all’uso del termine “intellettuale” rivolto contro di lui, e rivela quanto è difficile, durante la battaglia, non scivolare nella zona oscura, che è sempre pericolosamente vicina. Siamo dunque più interessati ad affermare la nostra ragione che a capirci, e a pensare che il nostro male, il nostro abisso, sia sempre provocato dal male e dall’abisso di qualcun altro: ma Albinati è andato più a fondo, perché ha preso dall’abisso un pensiero sconcio e invece di rivestirlo di ipocrisia (l’ho detto ma non l’ho pensato, mi vergogno di averlo detto ma non lo pensavo), lo ha svelato con un atto estremo di pubblica onestà (l’ho detto perché l’ho pensato, mi vergogno non di averlo detto ma di averlo pensato: a parlare è stato qualcosa di me, in me), e questo è un punto di partenza. Insieme alla certezza, o alla speranza, che l’umanità non sia costituita soltanto da strati e strati di incomprensione e di abisso.