Soffrire come un'icona pop
Essere (o diventare?) Marina Abramovic e performarsi con successo. In mostra a Firenze
E’ stata il volto di copertina di settembre su La Freccia, il mensile nazional popolare di Trenitalia. Prima di lei l’onore era toccato a Laura Pausini e Francesco Gabbani. All’attivo ha però anche le copertine dell’inglese Pop e del francese Elle. Poche settimane fa è stata oggetto delle ire del vicesindaco leghista di Trieste, che giudicò troppo “boldriniano” il manifesto realizzato per la storica regata Barcolana: “We are all on the same boat”. Ma essere sulla stessa barca di Marina Abramovic non è semplice. Settantadue anni il prossimo 30 novembre, è un personaggio magnetico e complesso: nel suo passato c’è l’arte d’avanguardia che non scende a compromessi, nel suo presente un comodo scranno nell’olimpo del mainstream. Profonda e frivola, austera e vanitosa. Prende il suo lavoro molto sul serio, ma ha anche la rara dote dell’autoironia. Che non l’ha sempre messa al riparo, nei tempi recenti, dalla trappola delle altrui celebrazioni. E’ di certo una personalità centrale nella storia delle arti performative che, non solo grazie a lei ma anche grazie a lei, sono entrate nei musei di tutto il mondo.
A Palazzo Strozzi la retrospettiva “The Cleaner” ripercorre tutto l’arco della carriera di un’artista profonda e frivola
Palazzo Strozzi a Firenze le dedica “The Cleaner”, la retrospettiva presentata già a Stoccolma, Copenhagen e Bonn. La mostra, curata da Arturo Galansino, ripercorre tutto l’arco della carriera di questa sfuggente artista, partendo dalle prime modeste prove come pittrice, a metà degli anni Sessanta, fino agli ultimi “oggetti transitori”, realizzati con grossi cristalli. In mezzo c’è la leggenda, ricostruita con materiale di archivio: fotografie, filmati, oggetti e documenti. A tutto ciò si aggiungono alcune performance eseguite da giovani da lei istruiti alla bisogna. L’artista si è concessa al pubblico per una conferenza-evento sabato scorso al Teatro del Maggio musicale fiorentino e per la presentazione di un libro di sue interviste, terminata con l’aggressione da parte dell’artista Vaclav Pisvejc, che le ha dato il benvenuto rompendogli un quadro, che raffigurava il volto di Marina, in testa. L’episodio è finito sulle pagine dei giornali di tutto il mondo contribuendo, come se ce ne fosse ulteriore bisogno, ad alimentare il suo profilo pop: una martire dell’arte nell’era del #metoo, presa di mira dall’invidia di un maschio in cerca di celebrità. Non si è fatta nulla ed ha perdonato Pisvejc, “come dice di fare il Dalai Lama”.
Ma per spiegare lo straordinario successo a livello mondiale, inimmaginabile per qualunque altro artista performativo prima di lei, non sono sufficienti le numerose amicizie glamour di cui si è fregiata e si fregia: da Lou Reed a Susan Sontag, da Bjork a David Byrne, Patty Smith e Bob Wilson, fino ad arrivare a Lady Gaga, che l’ha data in pasto – via social – al bulimico popolo dei millennials. La sua traiettoria, e la mostra di Firenze lo conferma, è quella di un’artista coerente, con un pensiero strutturato e profondo. Dolore, paura, amore, morte: l’uso del proprio corpo come medium ha proposto nuovi punti di vista sui grandi temi della vita. Il suo offrirsi incondizionato alla gente (dice: “il pubblico è il mio specchio e io sono uno specchio per il pubblico) dà l’impressione di essere autentico. Per la performance l’istante presente è tutto. Chiedersi come si possa, nel mondo di oggi, così come è fatto, essere presenti a se stessi, non è una provocazione da poco.
Ma l’aspetto che più affascina anche il pubblico non frequentatore di mostre è probabilmente la sua capacità di affrontare la sofferenza morale e fisica. In “Thomas Lips” usa una lametta per incidersi sullo stomaco una stella a cinque punte. Dal suo sangue sgorgano coraggio e ammirazione: in fondo, chi non vorrebbe saper tener testa al dolore della vita? Il messaggio ripetuto negli ultimi anni è che chiunque può farlo. Seguendo il Metodo Abramović, ovviamente. Poco importa che, stringi stringi, il Metodo si risolva in una serie di esercizi di concentrazione, imparati da vari guru conosciuti dall’artista in giro per il mondo.
L’esperienza più che decennale con il compagno-amante Ulay è probabilmente il corpus più compatto, in cui il simbolismo dei gesti riesce a comunicare idee profonde in modo solido e immediato. E’ il caso dell’opera forse più riuscita, “Rest Energy” del 1980. Marina regge un grosso arco e Ulay ne tende la corda, tenendo tra le dita la base di una freccia puntata contro il petto di lei. Racconta nell’autobiografia, “Attraversare i muri” (Bompiani): “Era la rappresentazione più estrema della fiducia. Eravamo entrambi in uno stato di tensione costante, ciascuno tirando dalla sua parte, con il rischio che, se Ulay avesse mollato la presa, avrei potuto trovarmi con il cuore trafitto”. I performer producono negli spettatori e in se stessi sentimenti reali attraverso azioni reali, senza per questo rinunciare a una dimensione poetica e universale dei gesti che compiono.
L’aspetto che più affascina anche il pubblico è probabilmente la sua capacità di affrontare la sofferenza morale e fisica
Nella prima metà degli anni Ottanta la coppia esegue “Nightsea Crossing”, la prima performance di lunga durata. I due sono seduti uno di fronte all’altra. In mezzo c’è un tavolo. Stanno immobili a guardarsi, in silenzio e digiuni. La performance dura otto ore per sedici giorni consecutivi ma, all’undicesimo, Ulay non ce la fa più e si alza. Marina si trova da sola davanti a una sedia vuota, ma porta a termine la performance. E’ l’inizio della fine del sodalizio artistico e sentimentale. La storia avrà il suo epilogo ufficiale, a coppia già scoppiata, al termine di “The Lovers”, nel quale i due partono dagli estremi opposti della Muraglia cinese per incontrarsi a metà, avendo percorso a piedi 2.500 chilometri ciascuno. Tra la concezione e la realizzazione della performance passano anni e, nel frattempo, la vita reale ha finito per mutare radicalmente il significato.
Ventidue anni dopo, nel 2010, sulla sedia lasciata vuota da Ulay siederanno le migliaia di persone che prenderanno parte a “The Artist is Present” al Moma di New York, l’opera più famosa dell’Abramovic. Tra loro, a un certo punto, compare Ulay stesso. E’ l’unico volto che spinge Marina a rompere la liturgia della performance (durata tre mesi). Piange, stringe le mani dell’ex compagno. Ancora una volta la vita entra di prepotenza nella cornice dell’opera e ne muta il corso.
In mezzo, però, c’è la consacrazione di Marina, che al successo di “critica e di pubblico”, come si dice, ci arriva da sola. E ci arriva con la sua performance più sconvolgente, “Balkan Baroque”, premiata con il Leone d’oro alla Biennale di Venezia del 1997. L’artista è seduta sul pavimento del seminterrato del Padiglione Italia, su una catasta di duemila ossa di vacca sanguinolente, che hanno ancora attaccate carne e cartilagini. Per quattro giorni, sette ore al giorno, Marina sfrega le ossa fino a farle diventare pulite. Il caldo fa marcire le ossa, che si coprono di vermi. Ma l’artista continua il suo lavoro. L’odore è nauseabondo e ricorda quello dei cadaveri su un campo di battaglia. “Mentre pulivo le ossa, piangevo e cantavo canzoni popolari jugoslave della mia infanzia”, racconta. Dal 1991 si combatte al di là dell’Adriatico e il riferimento alle vicende di cronaca è diretto. Quel gesto penitenziale lascia i visitatori disgustati e ipnotizzati.
La mostra a Palazzo Strozzi parla di tutto questo, ma lo fa senza sangue, sudore e odore. Cioè senza Marina. E’ una narrazione un po’ disinfettata e la documentazione delle performance non sembra all’altezza del racconto ad alto tasso emotivo che le ha rese celebri. Si dirà: è nella natura della performance l’esistere solo nel tempo presente. L’impresa di restituire la forza delle opere, non v’è dubbio, era parecchio complicata. Tuttavia, anche le esibizioni dal vivo, probabilmente per ragioni di budget, sono poco frequenti e, in alcuni casi, un po’ nascoste. Sì, all’inizio del percorso c’è il rifacimento di “Imponderabilia”: un uomo e una donna nudi stanno in piedi come stipiti di una porta stretta, attraverso la quale i visitatori devono passare di sbieco, scegliendo se fronteggiare l’uomo o la donna. Peccato che chi non vuole sottoporsi all’imbarazzante passaggio possa comodamente farne a meno, perché il transito non è obbligato, come nell’originale del 1977. Qui di inevitabile, invece, c’è solo il transito finale attraverso il bookshop.