Il lusso della libertà di Paolo Poli in mostra al Teatro Valle occupato
“Una mostra-album all’insegna del movimento”, spiegano i due curatori, che hanno messo insieme bozzetti, immagini di oltre sessant’anni in una giostra felice di colori e battute dal titolo “Paolo Poli è…”. Si “replica” fino al 4 novembre
Paolo Poli ha occupato il Teatro Valle di Roma. Non sopportava di vederlo chiuso, così con la complicità del nipote Andrea Farri e del critico Rodolfo di Giammarco ha fatto il miracolo: è ricomparso su quaranta monitor dotati di due cuffie in finta pelle nera – quelle che fanno sudare le orecchie – ha vestito sala e proscenio con venticinque costumi della sartoria Farani, creati da Santuzza Calì, ha srotolato i fondali di Lele Luzzati e si è fatto proiettare sul soffitto come in un’installazione di Bill Viola. D’altronde lui nel 1966 è stato Rita da Cascia, la santa delle cause impossibili. Poli “miracoloso”: chissà se c’è questo aggettivo tra i 586 che scorrono nel foyer, scovati da di Giammarco nelle recensioni. A Poli i santi piacevano da matti – “una prosecuzione del paganesimo” – però al paradiso preferiva l’inferno, perché “con tutte quelle fiamme, se uno ti chiede un fiammifero, si capisce subito che è un rimorchio”. Con Dio aveva una relazione complicata, il pane e il vino a casa non dovevano mancare, “perché son le specie” di un Cristo che in Italia riguarda tutti. Ciò non toglie che i bigotti fossero un bersaglio prediletto, e “sfogliando” il monitor dello spettacolo “Magnificat”, del 1983, ascoltiamo il suo ricordo delle parole di don Milani: “E’ facile voler bene a Dio, nessun l’ha visto, ma voler bene alle persone è più dura”.
“Una mostra-album all’insegna del movimento”, spiegano i due curatori, che hanno messo insieme bozzetti, immagini di oltre sessant’anni in una giostra felice di colori e battute dal titolo “Paolo Poli è…”. Quell’“è” copula – a questo punto il nostro si sarebbe sbizzarrito in doppi sensi “porcelloni” – si presta alle infinite aggettivazioni, ma forse anche all’ontologia assoluta: “Mi chiedono spesso i miei lumi sull’omosessualità, sugli anni della guerra, sulla fatica, il coraggio. Non rispondo, ho vissuto e basta”, si legge nel bel libro Sempre fiori, mai un fioraio composto con Pino Strabioli.
Più di seicento foto, tanti video e contributi audio di spettacoli, canzoni e interviste raccontano il lusso della libertà di un artista a trentadue denti smaglianti, sempre in lotta con il senso comune, come ci rivela il monitor dello spettacolo Rosmunda del 1977: “Solo le cattiverie ormai mi colpiscono. Uno che quando ho fatto uno spettacolo brutto ha detto: ‘Lo spettacolo è orrendo, una vera vergogna’. E io sono andato ad abbracciarlo: finalmente uno che dice la verità”.
La verità rendeva interessanti secondo lui, che non si preoccupava di piacere: “Il Gay pride? Mi ricorda il carnevale di Viareggio”.
Il giorno dell’inaugurazione della mostra c’erano tutti, dagli amici alle autorità, e si percepiva nell’aria il timore che lui saltasse fuori davvero da un momento all’altro per ripetere: “Io sono come Maria Antonietta in quel film in cui rivede le sequenze più brutte della propria vita e inorridisce… Le celebrazioni non le sopporto. Sono l’unica cosa che il fascismo non ci ha fatto mancare”. Poco importa che gli sforzi del Teatro di Roma, col suo direttore uscente Antonio Calbi, siano riusciti a mettere insieme anche le sequenze più belle.
Certo Poli avrebbe sorriso, l’altra sera. Il vicesindaco Luca Bergamo, per spiegare perché il palco del Valle non sia ancora attivo, stava ricostruendo le complicazioni catastali, ma prima che risalisse fino agli abusi edilizi di Tarquinio il Superbo – senza dubbio un protorenziano – Franca Valeri, con i suoi grandiosi 98 anni, lo ha interrotto e ha sentenziato: “In un qualsiasi paese civile questo teatro sarebbe già stato riaperto”. La Valeri è una delle donne eccezionali che hanno ispirato Poli, come la Betti, la Magnani, la Borboni che “inventava molto Pirandello”, oppure la Pampanini: “Ma Silvana perché non hai mai fatto teatro?”. “Ma perché lo spettacolo è alle 21… e quanno se magna?!”.
Ci serve questa “cura Poli”, per ricordarci quel senso critico di cui l’attore è stato sempre un presidio. Quindi se il Teatro Valle è occupato da lui va benissimo. Si “replica” fino al 4 novembre.