Non possiamo dirci kantiani
La sfida di Luigi Giussani ai tanti che nel Novecento hanno voluto presentare il cristianesimo come una teologia trascendentale è totale. Un convegno a Lugano
"Secondo lei Immanuel Kant può essere considerato un precursore di Comunione e liberazione?”. Questa domanda, fattami a bruciapelo dal mio professore di filosofia del liceo dopo cinquanta minuti di interrogazione su Kant, mi è tornata in mente durante la lettura di Giussani e la sfida di Kant, saggio di Marco Lamanna contenuto in Luigi Giussani. Il percorso teologico e l’apertura ecumenica, atti del convegno della Facoltà teologica di Lugano sull’iniziatore di Cl svoltosi nel dicembre scorso. Non vi appesantirò con le citazioni, considerate questa pagina – i lettori del Foglio conoscono il format – come un lungo “tra virgolette” di cui sono debitore a Lamanna e Giussani con l’aggiunta di qualche reminiscenza personale.
Quello che Kant chiama il “particolare destino” della ragione umana, Giussani lo identifica nel senso religioso
Per Kant la religione è un problema di morale (e quanti cattolici ci cascano). Per Giussani è invece un problema di conoscenza
All’epoca della domanda fatidica e intimidente avevo diciassette anni, ero giessino e il rapporto con il professore di filosofia non era dei più pacifici. Reduce da un esame di riparazione a settembre, ero stato rimandato con un inglorioso quanto inaspettato “non classificato” (dopo aver visto le cancellazioni dei miei voti sul registro tentai un ricorso ma mia madre preferì farmi passare l’estate studiando), ero considerato dalla classe l’antagonista ideologico del professore, scientista e azionista, il quale per spiegarci l’evoluzione del pensiero ci faceva esempi del seguente tenore: “Nel medio evo quando si rompeva un rubinetto il contadino pregava Dio che lo aggiustasse, con l’avvento della scienza e della tecnica oggi il contadino chiama l’idraulico”. Io invece di starmi zitto obiettavo che nel medio evo non c’erano rubinetti, e gli divenivo col tempo sempre più simpatico. All’esame di riparazione, dopo avermi massacrato implacabilmente su Cartesio e altro, mi chiese degli “animisti”. “Li conosce?”. “Bruno, Telesio e Campanella” rispondo sicuro. “Bene. Come lei sa, a seconda della concezione che si ha del mondo si danno certe spiegazioni dei fenomeni naturali. Ad esempio: piove perché Dio la manda…”. “No professore, scusi: piove perché il governo è ladro”. Sentii il gelo dei trenta dietro di me – tutta la classe, più qualche amico, era venuta ad assistere all’esame –, il professore mi sorrise, altrettanto gelido, e mi promosse.
Pagai quella risposta irridente con intere ore riservate solo alle mie interrogazioni e con l’ammissione alla maturità con voto di consiglio per superare l’opposizione del professore di filosofia, il quale dopo tre anni sentenziò: “Non ho elementi per giudicare questo ragazzo”. Mi iscrissi a filosofia, dove mi laureai a pieni voti. Il mio primo trenta lo presi sulla Critica della ragion pura.
Tanta premessa per ricollocare quella domanda che avevo dimenticato: “Secondo lei Kant era un precursore di Cl?”. E che, a ripensarci, era la domanda giusta. Allora risposi d’istinto e seccamente “No”. Oggi Lamanna dà sostanza a quella mia negazione spiegando come Kant – e il kantismo irriflesso ormai presente nella mentalità contemporanea, anche nella chiesa – sia stato “una sorta di antagonista, presentandosi spesso come un’alternativa radicale e senza compromessi” per la teologia di Luigi Giussani.
Al contrario di chi nel Novecento ha voluto presentarci il cristianesimo come una “teologia trascendentale”, assumendo dal filosofo tedesco non solo la denominazione della sua filosofia ma anche il metodo, Giussani – secondo Lamanna – ha colto la sfida di Kant e ha sentito il dovere di rispondergli su “tre aspetti fondamentali”: “la legittimità della teologia da un punto di vista conoscitivo, la natura del cristianesimo, la concezione della morale”.
La sfida avviene su un terreno comune, a partire da un punto condiviso, quello che Kant chiama il “particolare destino” della ragione umana e che Giussani identifica nel senso religioso, inteso non come alternativa sentimentale al razionalismo, ma come sintesi della razionalità e suo culmine. Perché se l’uomo è quel “livello della natura in cui la natura prende coscienza di se stessa”, se chiamiamo ragione questa presa di coscienza della realtà, se ragionevolmente ammettiamo che “la realtà non è mai veramente affermata se non è affermata l’esistenza del suo significato”, allora verifichiamo quotidianamente che nel nostro tentativo di conoscere ciò che incontriamo nell’esperienza, dall’albero alla persona amata, si affaccia un enorme punto interrogativo. Kant, come Giussani, avverte l’inevitabilità di queste domande, ma già nel come le percepiscono i due si discostano. Per Kant è un’oppressione, un’imposizione e una forzatura, per Giussani è un invito. Scrive Kant: “La ragione umana ha questo particolare destino: che essa viene oppressa da questioni che non può respingere, perché le sono imposte dalla natura della ragione stessa”. Non potendo evitarle e nello stesso tempo avvertendo il rischio dell’incompiutezza della sua impresa la ragione “così si vede forzata a cercare rifugio in principi che oltrepassano ogni possibile uso dell’esperienza”. Noi, insomma, volgarizzando, conosciamo solo ciò di cui facciamo esperienza, ma non lo conosciamo mai fino in fondo. Anche per Giussani si conosce solo ciò di cui si fa esperienza, ma l’esistenza del Mistero (che per Kant è una pura idea della ragione, un passaggio indebito dal fenomeno a qualcosa di oltre) per Giussani è una conoscenza “implicata” nella stessa esperienza: “Che la ragione – scrive Giussani nel Senso religioso – si senta ‘forzata’ a cercare altri princìpi, tale ‘costrizione’ è implicata nell’esperienza, è un fattore dell’esperienza stessa: negare questo passaggio è contro l’esperienza, è rinnegare qualcosa implicato in essa”.
Delle mie prime esperienze di supplente di religione in un liceo torinese, subito dopo la laurea, ricordo lo stupore di alcuni miei allievi quando spiegavo la religione come la dimensione profonda ma naturale della nostra ragione, cioè del nostro interesse per la vita. “Ma allora è un’altra cosa, è interessante” mi disse uno di loro.
Il problema con Kant è che alla fine Dio non è più interessante. Postulato dalla Ragion pratica, perché se ne ha bisogno per giustificare la ricerca della felicità e la norma morale, ma non oggetto di conoscenza certa, è un Dio che sta a lato del mondo e della vita. Non sappiamo se c’è, ma se c’è – come direbbe Cornelio Fabro – non c’entra. Acutamente Guido Sommavilla, in un interessante accostamento tra Kant e Chesterton, notava che il risultato della filosofia di Kant fu di limitare la ragione e di far posto alla fede (anche se non una fede nel senso canonico del termine, piuttosto una sorta di fideismo), al contrario Chesterton volle liberare quanto più la ragione perché potesse riconoscere la verità della fede. Dio come idea della ragione, come oggetto di una fede morale, non è il riconoscimento di una presenza che trascende la ragione, di una ragione che si apre, ma di una ragione che si blocca in se stessa, di una ragione che si rinchiude nel suo bunker, secondo l’efficace immagine di Benedetto XVI al Bundestag.
Il Dio posticcio di Kant non è adeguato, non è all’altezza delle domande che costituiscono il nocciolo della ragione umana, del suo “destino particolare”, della loro persistenza, che pure Kant stesso riconosce. Una domanda che non si estingue è molto più di un desiderio, dice Giussani. O meglio, il desiderio è vero e non passeggera voglia quando si attesta come domanda. “La domanda è di una cosa che non dipende da me”. Per questo è possibile contrastare con il desiderio la dittatura dei desideri. “Il desiderio – spiega Lamanna – può in alcuni casi essere qualcosa di autoprodotto dall’uomo: lo attesta il fatto che un desiderio può non trovare corrispondenza nella realtà (ad esempio il desiderio di un’eterna giovinezza fisica) tendendo per questo a estenuarsi o a divenire patologico. La domanda invece segnala la presenza di qualcosa che è sempre altro rispetto alla ragione e che per questo, secondo Giussani, c’è: la sete, da questo punto di vista, è propriamente non solo un bisogno e un desiderio, ma anche una domanda, in quanto è esigenza che può nascere solo dal fatto che l’acqua (cioè l’elemento che soddisfa la sete) esiste in natura”. A Kant Giussani non obietta la critica alla metafisica della tarda scolastica, bensì l’incoerenza con il suo stesso proposito: partire dall’esperienza e andarvi fino in fondo. “Negando che Dio sia conoscibile, Kant frustra la domanda ultima e totalizzante della ragione, costringendo l’uomo ad accettare un compimento non adeguato, perché possibile solo in senso morale” (Lamanna).
Vittorio Mathieu, mio professore all’Università di Torino, diceva a lezione che posto un principio bisogna avere il coraggio di seguirlo traendone tutte le conseguenze. Kant, sembra dire Giussani, non ha avuto questo coraggio, non ha assecondato il “destino particolare della ragione” e la “domanda irresistibile e inesauribile” propria dell’uomo per la quale il “dato” della realtà implica qualcosa/qualcuno che dà. “La ragione implica l’affermazione dell’esistenza del mistero, intendendo per mistero un fattore presente in ogni esperienza”. Questa implicazione non è oltre l’esperienza, è un fattore dell’esperienza. Per cui, questo il vero danno di Kant, “si sopprime la domanda se non si ammette l’esistenza di una risposta”. E la domanda non è un’idea. La domanda è l’uomo come persona. Sempre Chesterton diceva che molti che partono attaccando la Chiesa per liberare l’uomo finiscono, per poter attaccare la chiesa, con l’attaccare l’uomo.
Ma “perfino a Kant veniva un dubbio sulla bontà della sua Critica della ragion pura guardando il cielo stellato” scrive Giussani parlando della povertà evangelica come condizione della conoscenza della realtà. Chi non ha categorie a priori se non i suoi occhi e la sua ragione accusa l’impatto della realtà come segno di qualcosa d’altro, come richiamo. “Ciò che c’è – dice Giussani – è ciò da cui si parte per ragionare, non lo si dimostra con la ragione […]. La ragione come creatrice della realtà è la grande menzogna di tutta l’epoca moderna […]. Questa traiettoria che nasce da Cartesio ha come culmine Kant e Hegel”.
A questo punto, Cartesio ne offre il destro, occorre parlare di metodo. Lamanna scrive che su questo punto la sfida di Giussani a Kant “diventa totale, perché non tocca più solo la natura dell’oggetto (Dio) o la legittimità della scienza (teologia), ma anche il metodo di conoscenza”.
Per Kant “scientifici” sono solo i metodi di matematica e fisica. Giussani ha una concezione della ragione più aperta (“più larga” direbbe il solito Chesterton): il metodo di conoscenza è imposto dall’oggetto da conoscere, non ce n’è solo uno. La ragione non può essere ridotta a quella sua parte che è la logica. Infatti “il problema davvero interessante per l’uomo non è la logica – gioco affascinante – non è la dimostrazione – invitante curiosità: il problema interessante per l’uomo è aderire alla realtà, rendersi conto della realtà. E’ dunque una cogenza (qualcosa che costringe) non una coerenza”.
Il Dio posticcio di Kant non è adeguato, non è all’altezza delle domande che costituiscono il nocciolo della ragione umana
Per Giussani, “la ragione come creatrice della realtà è la grande menzogna di tutta l’epoca moderna; una traiettoria che nasce da Cartesio”
Il cielo stellato, che Kant accosta alla “legge morale in me” ma senza connetterli (altro danno, l’io diviso), è invece per Giussani orizzonte di moralità. I suoi allievi l’hanno sentito spesso raccontare dei due fidanzati abbracciati in viale Lazio a Milano che lui, giovane prete, disturbò con la sua tonaca. “Una sera stavo uscendo dal cancello verde della parrocchia. Il cancello finiva in un muro e, appoggiati al muro, stavano lui e lei, strettamente abbracciati. Io avevo la tonaca – allora si usava ancora portarla – e andavo sempre veloce in bicicletta, così che la tonaca schioccava come una frusta. Passo davanti a loro, un colpo repente, e si staccano. Io, che ero lanciatissimo, freno! Rigirandomi, torno verso di loro e dico: ‘Scusate, ma se non stavate facendo niente di cattivo, perché siete stati sconfortati dalla tonaca?’. Faccio per rigirarmi e andarmene, ma non avevo ancora messo il secondo piede per terra che mi è venuto il lampo di genio più bello della mia vita… C’era un cielo stellato, gremito di stelle, senza nuvole, tanto lucido da esser denso… Girandomi su un piede, mi rivolgo verso di loro, mentre già stavano riabbracciandosi, poveretti, e dico: ‘Scusatemi ancora un momento: ma quel che state facendo che c’entra con le stelle?’ E improvvisamente ho capito che quello era il concetto di virtù: il nesso tra l’azione effimera, tra l’istante nella sua forma esistenziale, e la totalità delle cose”.
Per Kant la religione è un problema di morale (e quanti cattolici ci cascano). Per Giussani è un problema di conoscenza. Per Kant la conoscenza è una questione di giudizio a priori. Per Giussani è un incontro tra una struttura nativa dell’uomo (quel complesso di evidenze ed esigenze originali – di felicità, verità, bellezza, bontà, giustizia – con cui l’uomo è lanciato dalla natura nell’universale paragone con se stesso, con gli altri e con le cose) e la realtà, che ci viene data solo nella storia.
La storia per Kant è un limite, per Giussani un’occasione, l’occasione. “Una fede storica – scrive Kant ne La religione entro i limiti della sola natura –, semplicemente fondata sui fatti, non può estendere la sua influenza al di là del limite di tempo e di luogo cui possono giungere le notizie che consentono un giudizio sulla sua credibilità”. “Io – ribatte Giussani – ho imparato tutto dalla storia”.
Da Kant, giù per li rami, consapevoli o meno che lo siano, arrivano i conservatori che riducono il cristianesimo a dottrina come quelli che lo confinano nella morale, progressisti o nostalgici a seconda dei comandamenti su cui, inseguendo la moda dei tempi, si fissano. A entrambe queste riduzioni Giussani ha opposto il cristianesimo come avvenimento e come conoscenza amorosa. Definizione che ha trovato la sua consacrazione in due atti del magistero pontificio, la Deus caritas est di Benedetto XVI e la Evangelii gaudium di Francesco): “All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la decisione definitiva”.
La filosofia – diceva quel mio professore di liceo – ha questo di concreto, che resta come modo di pensare anche in chi non l’ha studiata, diventa senso comune. Kant, che non è certo pane quotidiano per le masse, solo Umberto Eco – motteggiava Giuliano Ferrara citandolo – passava le serate leggendolo, è più presente che mai: nelle discussioni con i colleghi giornalisti come negli incontri con i ragazzini delle borgate romane. Ricordo una cena molto impegnativa con un giovane redattore, oggi felicemente direttore, al quale tentavo invano di spiegare la possibilità di risollevarsi dall’incoerenza se si ha un amore più grande di quello alla propria perfezione. Il dovere ha in se stesso la sua motivazione, mi ripeteva. E ricordo anche quei ragazzini che con alcuni amici portammo in gita per Roma, spiegando loro che così faceva anche san Filippo Neri: “Sapete che cos’è un santo?”. “Sì! Nun te move, nun distrurbà, sta’ buono, non fare casino, fa’ quello che devi fa’. Ecco, quello è un santo”. “Dovere, nome grande e sublime [che] esigi sottomissione”, potrebbe essere l’attualissimo commento con le parole di Kant. “La sorgente della morale è voler bene a uno, non realizzare delle leggi”, l’alternativa proposta da Giussani. Ed è questa la possibilità offerta dal cristianesimo.
Resta un problema, che Giussani evidenziava con i versi di Juan Ramón Jiménez: “Es verdad ya. Ma fue tan mentira que sigue siendo imposible siempre. (Ora è vero. Ma è stato così falso che continua a essere impossibile.) E commentava: “Quando uno intuisce il fatto cristiano come vero, gli occorre il coraggio di risentirlo possibile, nonostante le immagini negative alimentate dai modi angusti in cui esso è stato tradotto nella vita propria e nella società”. C’è una ragione più pura?