In smoking o in baby doll. Il volto Pop del "Flauto magico"
Nessuno sa quale fu la vera origine di questa opera misteriosa. Di sicuro, quella che Mozart e Schikaneder scrissero insieme è una favola dell'amore
Ci voleva un australiano senza complessi, con radici mitteleuropee e grande libertà di osare come Barrie Kosky per ritornare alle origini del Singspiel di Emanuel Schikaneder e trasformare Die Zauberflöte di Wolfgang Amadeus Mozart in dinamite pura. La storia com’è noto è una fiaba di due personaggi che si cercano di continuo, ma vengono sospinti dagli altri lontano l’uno dall’altro, e solo alla fine, superate le prove del fuoco e dell’acqua, conquistano la saggezza e l’amore, e finiscono per ritrovarsi. Barrie Kosky riporta in auge l’opera settecentesca, la fa scoprire e riscoprire a vecchi e giovani, riesce a imporla come un successo planetario, trattandola come se fosse un film muto degli anni Venti, grazie alle ultime diavolerie del cinema di animazione. Sovrintendente e direttore artistico della Komische Oper di Berlino, Barrie Kosky ha una fantasia debordante che sarebbe piaciuta a Schikaneder, il teatrante e impresario che commissionò l’opera a Mozart nel 1791, senza sapere che per lui sarebbe stata l’ultima.
L’allestimento del Flauto magico di Kosky è una macchina perfetta che combina lo spettacolo dal vivo con l’animazione, grazie a video meravigliosi, attori che sembrano recitare sospesi per aria, e un senso straordinario dell’illusione teatrale. Un’impresa all’avanguardia che il Teatro Costanzi accoglie a Roma in prima nazionale a partire da martedì 9 ottobre, con sette repliche fino al 17 ottobre, sotto la direzione dell’ungherese Henrik Nánási, con le scene di Esther Bialas, i video di Paul Barritt, le luci di Diego Leetz e un cast rodatissimo composto da Armanda Forsythe e Kiandra Howarth nel ruolo di Pamina, Juan Francisco Gatell e Giulio Pelligra in Tamino; Christina Poulitsti, Olga Pudova ed Emma Posman nei panni della Regina della Notte; Gianluca Boratto e Antonio Di Matteo in quelli di Sarastro, Marcello Nardis, Monostatos, Alessio Arduino e Joan Martín-Royo, Papageno, e Julia Giebel, Papagena, oltre ai giovani di Fabbrica nei ruoli delle tre dame e negli altri ruoli minori e al coro diretto da Roberto Gabbiani.
Il regista australiano, con radici mitteleuropee, riporta in auge l’opera settecentesca, la fa scoprire e riscoprire a vecchi e giovani
Codiretto con Suzanne Andrade regista, performer e fondatrice del gruppo londinese “1927”, che prende il nome dall’anno in cui uscì il primo film sonoro (Il cantante di jazz con Al Jolson), la Zauberflöte di Kosky nell’allestimento della Komische Oper di Berlin è soprattutto un successo mondiale, che ha deliziato mezzo milione di persone nei tre continenti: dal Festival di Edinburgo a Helsinki, da Varsavia a Madrid, da Barcellona a Budapest, da Parigi a Pechino, senza dimenticare l’America, con rappresentazioni a Los Angeles, Philadelphia e in Minnesota. E di sicuro è uno degli spettacoli più fantasiosi e strabilianti in circolazione. Segna la resurrezione dell’opera attraverso il mimo, il cinema di animazione, l’arte della performance, e rappresenta un ritorno alla grande all’essenza stessa dell’ultima e misteriosa opera lirica di Mozart, oltreché alla fantasia straripante di un teatrante dalle mille vite come Schikaneder, il vecchio saltimbanco bavarese che fu artista di strada, regista, impresario, direttore di compagnia, attore e cantante nonché amico di Mozart.
E pensare che all’inizio l’australiano Kosky trovava Il flauto magico un’opera indigesta. Nato a Melbourne nel 1967, famiglia con origini mitteleuropee, in Bielorussia e in Ungheria, fondatore della Gilgul Theatre Company, una compagnia teatrale alternativa di radici ebraiche, giovanissimo sovrintendente dell’Adelaide Festival di Melbourne, Kosky lavora dal 2001 in Europa, prima a Vienna come direttore dello Schauspielhaus, e dal 2012 a Berlino, dove è riuscito a riportare la Komische Oper al suo splendore pre Ddr, rivoltandola come un calzino e registrando un’impennata nel pubblico del 90 per cento, cosa che gli è valsa il titolo di miglior regista d’opera nel 2014 secondo Opernwelt e l’anno dopo gli International Opera Awards. “La prima volta che vidi Il flauto magico da bambino a Melbourne, non mi piacque per niente, lo trovai incomprensibile e mi annoiai terribilmente”, ha confessato al Guardian il regista australiano, che frequenta l’opera dall’età di sette anni, quando la nonna ungherese lo portava a sentire Janácek e Bela Bartók.
Il vecchio saltimbanco bavarese fu artista di strada, impresario, direttore di compagnia, attore e cantante oltreché amico di Mozart
Arrivato alla guida della Komische Oper di Berlino, per tre volte ha rifiutato di mettere in scena Il flauto magico: “E’ la tomba di ogni regista”, diceva. Poi però ha dovuto cambiare idea, e per farlo è tornato alle origini, quando l’opera fu lanciata a Vienna una sera di fine settembre del 1791 al Freihaus Theater auf der Wieden, inaugurato due anni prima, e ormai diretto da quel saltimbanco geniale di Schikaneder, che era anche l’autore del libretto dell’opera di Mozart e uno dei principali interpreti, visto che aveva deciso lui stesso di recitare nei panni di Papageno, vestito di piume, improvvisando le battute e cantando come un contadino un po’ ubriaco, tanto che Mozart, che quella sera diresse l’orchestra dal fortepiano, cercò persino di far suonare il flauto fuori tempo, raccogliendo dal pubblico risate così fragorose da rischiare di far crollare le impalcature del teatro. “L’opera esiste per metà grazie alla musica di Mozart. Il resto è il teatro e il libretto di Schikaneder”, ricorda oggi Barrie Kosky. “Per questo è un lavoro geniale. E per questo, è assurdo inseguire un’idea di regia, il concept, come dicono oggi. Meglio affrontarla come un surreale racconto di fate, cercando di restituirne tutte le risonanze profonde”.
La vera idea della regia di Kosky consiste dunque nel rinunciare a un’interpretazione univoca, per cercare di mettere in scena tutta l’eterogeneità di un’opera senza tempo, senza età, che può piacere a un bambino di otto anni e conquistare un vecchio di ottanta, come dice il regista intervistato da Ulrich Lenz. Il risultato è così felice e spettacolare come può esserlo l’incontro inatteso e il perfetto connubio tra una gioiosa tradizione musicale e l’assoluta ignoranza di chi la mette in scena. E infatti, racconta Kosky con malcelato compiacimento, i tecnici del gruppo londinese “1927”, esperti nei video di animazione, non solo non conoscevano la Zauberflöte, ma non avevano mai messo piede all’opera. Da qui la libertà di creare e ricreare una scena, una narrazione, un’intera grammatica visiva con i cantanti appesi su un piedistallo, che cantano guardando le immagini proiettate dai video, inseguendo le stelle cadenti, gli scheletri, gli strani uccelli, gli elefanti che si trasformano in congegni meccanici, i cerchi di fuoco, tanti ragni, tante farfalle, molte corse saltellanti sui tetti e varie leve che sollevano verso un mondo fantastico, mentre un ascensore scende negli inferi col suo carico di augusti signori con barba e tuba, e alla fine è tutto un proliferare di piccoli Papageni che spuntano dai riquadri di in una una casa di bambole stilizzata.
Kosky lavora dal 2001 in Europa, dal 2012 a Berlino, dove è riuscito a riportare la Komische Oper al suo splendore pre Ddr
Papageno del resto, in completo raffazzonato color tabacco chiaro, sembra un Buster Keaton nei panni di un impiegato della Lipu alle prese con un drago a otto zampe tipo quello concepito da Enrico Mattei per il logo dell’Eni. Le tre dame che appaiono all’inizio hanno l’aria di tre zitelle solitarie che si mangiano con gli occhi Tamino, ma sono elegantissime nei loro tailleur, con una cloche sulla tesa e in bocca un bocchino infinito. Tamino è in smoking e sembra un damerino che si aggira sperduto fra gli ospiti di un cocktail sul Tiergarten. Pamina è in nero con un collo a jabot, in stile charleston, e ha una frangetta alla Coco Chanel, e però ricorda Louise Brooks. A un certo punto compare a letto in baby doll, accanto all’orrido Monostatos che cerca di insidiarla e sembra Nosfertu per l’aria perfida da vampiro arrapato. La Regina della Notte spunta fuori da un ragno come se fosse una crisalide diabolica, mentre dall’alto le precipitano intorno sei coltelli come lingue di fuoco, che iniziano a colpire all’impazzata…
Ancora una scena del "Flauto magico" nell'allestimento della Komische Oper di Berlino che si potrà vedere all'Opera di Roma. Sul podio Henrik Nànàsi
Prevale insomma la dimensione del gioco, della magia, della fiaba vivente sia essa un sogno a occhi aperti, o un incubo della ragione che crea i suoi mostri. L’effetto è quello della prestidigitazione continua che solo il cartone animato e il cabaret sono in grado di assicurare rendendo plausibile il passaggio da una scena all’altra, col taglio dei dialoghi, e il raccourci dei cartelli come al cinema muto. Ma per realizzare questa resurrezione in chiave pop del capolavoro di Mozart, Kosky e la regista Andrade del gruppo “1927” hanno dovuto obbedire a una scelta precisa; smettere di considerare Il flauto magico per le sue implicazioni filosofiche, per il suo messaggio illuministico in nome della ragione e dell’umanità fondata sull’eguaglianza. “Quando mai Mozart rispettoso delle donne?” ammoniva Paolo Isotta. E inoltre, hanno dovuto accuratamente evitare di celebrare la musica, per quanto splendida, di consacrare il genio di Mozart compositore, per lasciare spazio a Schikaneder, il vero demiurgo dell’opera, e cioè il direttore teatrale, l’impresario, il librettista, il vecchio saltimbanco geniale che da solo incarnava tanti ruoli diversi, come quello di capocomico, di attore, di mimo, di cantante e chi più ne ha più ne metta, e sembrava uscire dritto dritto dal Bildungsroman di Goethe, Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister, per occupare la scena come un vero deus ex machina.
“L’opera esiste per metà grazie alla musica di Mozart. Il resto è il teatro e il libretto di Schikaneder. Per questo è un lavoro geniale”
Del resto, l’idea del Flauto magico, era stata sua. Mozart l’aveva conosciuto a Salisburgo nell’autunno del 1780, e pochi anni dopo l’aveva ritrovato a Vienna, dove Schikaneder aveva messo in scena qualche spettacolo al Burgtheather, e nel 1789 era diventato il direttore del Theater auf der Wieden, il teatro costruito due anni prima e inaugurato alla vigilia della presa della Bastiglia, come ricorda Piero Melograni (La vita e il tempo di Wofgang Amadeus Mozart, Laterza 2003).
Più che un teatro, in realtà era una parte del più grande complesso immobiliare di Vienna, il principesco Starhembergisches Freyhaus, sorto nella periferia della città e composto da vari edifici: oltre la sala da spettacolo che poteva accogliere mille persone, c’era una locanda, una chiesa dedicata a Santa Rosalia, diverse officine artigiane, un frantoio, un mulino, una farmacia, sei cortili, trentadue scale, e duecentoventicinque appartamenti in cui abitavano lo stesso Schikaneder, la cognata di Mozart, Josepha Hofer, che interpreterà la prima Regina della Notte, col marito violinista Franz de Paula Hofer, e pure il primo Sarastro, Franz Xaver Gerl, che in realtà abitava lì accanto, nell’odierna Schleifmühlgasse. Sembra che Mozart nell’estate del 1791 abbia composto gran parte della Zauberflöte non lontano dal teatro, nel Salettl, un piccolo padiglione di legno al centro di uno dei sei cortili del Freyhaus, che oggi si trova a Salisburgo, in mezzo al giardino del Mozarteum. E sarebbe bello sapere come Mozart lavorava con Schikanender, che scrisse il libretto per quel Singspiel in due atti, come adattò la musica alla trama, o viceversa come pretese di piegare il testo alle sue note, e come interpretava le parole che gli offriva il suo vecchio amico bavarese.
“Assurdo inseguire un’idea di regia, meglio affrontare l’opera come un racconto di fate, cercando di restituirne le risonanze profonde”
Mistero. Nessuno sa dove e come nacque l’idea di quel testo indicibile. Nessuno sa quale fu la vera origine di quell’opera misteriosa, definita da Paolo Isotta “una deliziosa accozzaglia di cose alte, di moda e avanspettacolo viennese”. Forse all’origine c’era lo stravolgimento di una pièce di Wenzel Müller di scena al Leopoldstädter, come vuole la “teoria della rottura” secondo la quale librettista e compositore si divertirono a ribaltare i personaggi, inventandosi una fata buona che diventa la perfida Regina della Notte, e trasformando il crudele Sarastro in un principe della ragione.
Di sicuro, quella che scrissero insieme è una favola dell’amore, dove vige l’eterogenesi dei fini, perché il male genera il bene e il bene il male, nella folle corsa bambinesca verso la luce e la rivelazione del mistero, in vista della conquista della saggezza. E forse era addirittura un’arlecchinata di quelle che facevano impazzire i viennesi, uno scherzo, un’opera buffa, in cui inserire alcuni elementi dell’opera seria, come i riti di iniziazione alla fratellanza universale, cari a Sarastro, che suggeriscono forse l’ascendenza massonica comune tanto a Mozart che a Schikaneder. Ambientato a Tebe, nell’antico Egitto, in linea con l’egittomania dell’epoca, Il flauto magico racconta la storia di un giovane principe, Tamino, che dovendo conquistare l’amore e la saggezza troverà il primo in Pamina, la figlia della malefica Regina della Notte, e la seconda nel tempio di Sarastro, il sacerdote che rappresenta la luce del bene, ma tiene Pamina prigioniera e ha per servo il viscido Monostatos, che finirà condannato agli inferi come la madre di Pamina. Così, l’amore nasce dal buio della Notte. E insieme i due affronteranno la prova del fuoco, durante la quale Tamino suona il flauto d’oro che per magia tiene lontano i pericoli.
L’opera ebbe un successo sensazionale: 24 repliche nel solo mese di ottobre del 1791, duecento nei tre anni a venire
E poi c’è l’alter ego di Tamino, il suo compagno di avventure, Papageno, il contadino scemo, bugiardo e pieno di paure. E’ l’uccellatore che va a caccia di uccelli vestito di piume con tanto di coda, e vive come un animale, contento di mangiare, di bere e dormire, anche se mentre beve una miscela rosa da un gigantesco bicchiere da cocktail, nello spettacolo di Kosky, vede volteggiare intorno a sé degli elefanti rosa e anche lui sogna di incontrare l’amore, anzi sogna “Ein Mädchen oder Weibchen”, una fanciulla o una mogliettina. Alla fine sarà proprio lui, Papageno il contadino scemo, a raggiungere Pamina prima di Tamino, a proteggerla e trovare le parole giuste per rassicurarla. Così, senza nessuna spinta verso l’ascesi, senza nessun anelito all’ideale trascendente, senza nemmeno affrontare le prodezza del cerchio di fuoco, anche lui finirà per incontrare una brutta vecchia che per incanto si trasformerà in Papagena, la splendida fanciulla che gli darà tanti bei Papagenini.
La prima della Zauberflöte andò in scena a Vienna il 30 settembre 1791, diretta dallo stesso Mozart. L’opera non era ancora considerata abnorme, e il biglietto di ingresso non era più costoso di quello di altre opere nel repertorio della compagnia di Schikaneder. Ma richiese un allestimento complesso, ben al di là dei parametri ordinari. Il Theater auf der Widen era famoso per le scenografie e gli effetti speciali, per il profluvio barocco degli allestimenti. “Sul palco apparivano veri leoni, scimmie, serpenti, e montagne, e palazzi, prigioni e giardini, grotte con cascate, sale colonnate e templi a creare le ambientazioni. Questa era la macchia opera”, scrisse Tadeusz Krzeszowiak. I pittori Joseph Gayl e Nesslthaler realizzarono nuove decorazioni. Schikaneder portò in scena una Regina della Notte con le sue Dame, un Sarastro con i suoi sacerdoti, mischiando sacro e profano, mettendo insieme spiriti, demoni e furie. “Ma ha ingannato i nostri occhi con sedici cambi di scena, e ha evocato paesaggi naturali in stile barocco”, scrisse nel 1793 Johann Friedel che citava “il paesaggio roccioso disseminato di alberi” della prima scena, l’arrivo della Regina della Notte “fra due montagne che si aprono a metà”, e il palcoscenico che a poco a poco si trasformava “in una stanza sontuosa, con un trono punteggiato di stelle”, mentre per la prova dell’acqua e del fuoco, era prevista “una cascata ruggente e una montagna che vomita fiamme, con una grata per ognuna di esse, attraverso la quale vedere l’acqua, coperta di nebbia scura, e il fuoco, ardente di un rosso vivo”.
Papageno sembra un Buster Keaton nei panni di un impiegato della Lipu. Le tre dame, tre zitelle che si mangiano con gli occhi Tamino
Per la distribuzione delle parti, Schikaneder arruolò gli attori più affermati della compagnia, che vivevano per il teatro, lavorando in famiglia. Per sé, l’impresario e direttore artistico del Theater auf der Wieden volle il ruolo di Papageno, che del resto si era scritto su misura. La parte di Tamino la diede a Benedikt Schack, compositore della compagnia che cantò da tenore, mentre Franz Xaver Gerl, che cantava nel coro alla corte di Salisburgo, interpretò Sarastro, e sua sorella Barbara Gerl ebbe il ruolo di Papagena. La cognata di Mozart, Josepha Hofer, fu la prima Regina della Notte e Anna Gottlieb, un’allieva del compositore, recitò la parte di Pamina. L’opera ebbe un successo sensazionale: ben 24 repliche nel solo mese di ottobre del 1791, cento in un anno e duecento nei tre anni a venire, con rappresentazioni da per tutto, a Praga, Francoforte, Monaco, Amburgo e Berlino. “Torno adesso dall’opera”, scrisse Mozart all’adorata moglie Constanze la sera del 17 ottobre 1791. “Era tutto pieno, come sempre. Ma ciò che più mi soddisfa è l’applauso solerte – vedi quanto conta quest’opera nel giudizio della gente!”. Non sappiamo se alludesse agli incassi, che raggiunsero livelli inusitati, alla soddisfazione del pubblico o al ritorno di fiamma nei suoi confronti da parte dei mecenati dell’aristocrazia viennese, che qualche mese prima sembravano averlo abbandonato. Di fatto, nemmeno al culmine della soddisfazione riuscì a godersi in pieno quel trionfo.
Die Zauberflöte sarebbe stata il suo canto del cigno. Nessuno lo sapeva, però. Nessuno poteva immaginare che quel compositore nevrastenico e gioviale, innamorato perso della moglie ma incapace di dormire da solo, giocherellone come un bambino, ma sempre assorto nei suoi pensieri più segreti e plumbei come se fosse in balìa di un estro incontrollabile e feroce, aveva solo due mesi di vita. Mozart morì all’alba del 5 dicembre 1791 a Vienna, nel suo appartamento al n. 970 della Rauhensteingasse, fra le braccia della moglie Constanze Weber.
Il male genera il bene e il bene il male, nella corsa bambinesca verso la luce e la rivelazione del mistero, in vista della conquista della saggezza
Morì forse a causa della nefrite o per un’epidemia di febbre, forse provato dal troppo lavoro o indebolito dai continui salassi subìti per curare i gonfiori di stomaco. Morì nel suo letto, in mezzo agli spartiti del Requiem, al quale lavorò fino alla fine. Per tutto il pomeriggio, aveva cantato le arie del contralto, mentre l’amico Schack cantava quelle del soprano, e il cognato Hofer quelle del tenore. “Erano arrivati al primo tratto del Lacrimosa, quando Mozart iniziò a piangere disperatamente, mise da parte gli spartiti, e undici ore dopo, all’una di notte, morì”. Aveva appena 35 anni, ma aveva scritto una ventina di opere liriche e più di seicento composizioni, che per molti ancora oggi continuano a essere la prova tangibile dell’esistenza di Dio.
Universalismo individualistico