Ci vorrebbe un MacGuffin
La noia, il già visto e sentito, il vuoto di teorie: anche l’esangue panorama dell’arte contemporanea avrebbe bisogno di un artificio, un motore virtuale come quello teorizzato da Hitchcock per il cinema
Tutti se ne infischiano, la maggioranza lo ignora, ben pochi osano frequentarlo, alcuni ci trafficano diffidenti, nessuno – proprio nessuno – è pronto a giurare su una qualche lealtà presente o futura. Ma certo! Si parla proprio del favoloso contemporaneo Art World, quella sorta di microcosmo zeppo di fedi mancate o presto svanite, promesse molto spesso disattese ed evaporate, un mondo fiero persino della ostinata marginalità del proprio ruolo con il conseguente repentino precipizio nell’oscuro magazzino degli optional che lo esclude anche da qualsivoglia relazione col sociale e men che meno col politico. Presto si può scoprire persino il tradimento – ecco il lato davvero funesto per i creduloni adoratori del ciò che costa vale – della marmorea certezza nei più che suggeriti investimenti e relativi immancabili profitti a venire.
Proprio come un gas combustibile incolore e inodore (e sovente letale), una sorta di denso grisou che come cappa opaca avvolge la noia, del risaputo, dello pseudo ineluttabile, del para intellettuale, del déjà-vu, del già detto e sentito, riesce ad appannare ancor di più le stente figurine del consunto theatre des ombres saturo di artisti, gallerie, musei e fondazioni, fiere e tutto il resto, un panorama a volte sostanziato di genialità esangui e di poco conto, assenza di ruoli, vuoto di teorie, manifesti o idee guida, privo anche di vere passioni corali e praticabili utopie.
Ci troviamo immersi in un materiale narrativo prossimo alla stasi che urla la necessità di un qualche espediente per restare in vita
Non è certo difficile scoprire che ci troviamo immersi in un plot stantio e risaputo, in un materiale narrativo prossimo alla stasi che urla la necessità di un qualche artificio per restare in vita, per rinnovarsi, si sente il disperato bisogno di un elemento capace di tener alta la tensione, accrescere l’interesse.
E’ a questo punto che la salvezza prende la forma di un MacGuffin, definibile come quel motore virtuale unico e indispensabile per dar fiato e vita a uno scontato meccanismo divenuto ogni giorno più flebile e lontano.
Nell’agosto del 1962 François Truffaut registrava a Univesital City una lunga serie di conversazioni con Alfred Hitchcock, prezioso materiale per il libro Le cinéma selon Hitchcock. Parlando del film Foreign Correspondent del 1940, in cui l’attore Albert Bassermann interpreta tal Mr. Van Meer, vecchio diplomatico olandese che si presume essere a conoscenza di una clausola segreta, Hitchcock dichiara: “La famosa clausola segreta era il nostro MacGuffin”. Lo sceneggiatore August McPhail con Alfred Hitchcock coniano il termine per indicare una sorta di pretesto – quasi sempre privo di valore sostanziale – un artifizio utile soltanto per dar vita, rendere dinamica e interessante una trama. E’ sovente un elemento che compare all’inizio del film e del quale subito dopo si perdono le tracce.
Talvolta il MacGuffin può essere persino inesistente in senso oggettuale, può risolversi in un’affermazione, in un’ipotesi interessante, è comunque sempre un antidoto al sopraggiungere della noia e della caduta dell’interesse.
Hitchcock racconta come Kipling scrivesse spesso sugli inglesi intenti a lottare contro gli indigeni lungo la frontiera dell’Afghanistan. Erano storie di spionaggio sempre dotate del furto della Pianta della fortezza. Ecco allora il MacGuffin, che prende vita con l’azione di rubare carte, documenti, piante segrete, segreti. Materiale impalpabile. S’intende subito che non c’è insomma verità nel MacGuffin. E’ famoso il racconto fatto a Truffaut, per meglio definire l’inconsistenza del termine, quando accenna a come MacGuffin abbia tutta l’aria di essere un cognome scozzese, ideale per la narrazione di un incontro su un treno.
Due uomini viaggiano silenziosi. A un certo punto uno dei due chiede educatamente all’altro del contenuto di uno strano pacco sul portabagagli. “E’ un MacGuffin”, risponde l’uomo. “Ma cos’è un MacGuffin?”. La risposta: “Un aggeggio per catturare i leoni sulle montagne Adirondack!”. “Ma non ci sono i leoni sulle Adirondack”. La risposta conclusiva: ”Allora non è un MacGuffin”. Truffaut sintetizza: “Si potrebbe dire che il MacGuffin non ha bisogno d’essere molto serio, ma che è addirittura preferibile sia una cosa banale e assurda...”. Hitchcock approfondisce dicendo di avere imparato negli anni che il MacGuffin non è niente, proprio come succede in North by Northwest – dove il regista garantisce d’aver costruito il miglior MacGuffin che è sempre il più vuoto, quello inesistente! Come si sa, si tratta di un film di spionaggio in cui le spie cercano qualcosa all’aeroporto di Chicago e l’uomo della Cia spiega a Cary Grant, che vuol sapere cosa fa James Mason: “Diciamo che è uno che fa import-export e che forse vende segreti di governo. In pratica niente”.
Un segreto che giustifica e mette in moto atteggiamenti volti all’accrescimento della suspense. Nella filosofia e nel giornalismo
La storia del cinema è ricca di simili pretesti, necessariamente ricca di MacGuffin. The Maltese Falcon di John Huston del 1941 ha da fare con una misteriosa statuetta di un falcone che nel finale rivela la sua totale inconsistenza e falsità. Facile pensare anche al Titanic di James Cameron (1997). Si parte con la ricerca del Cuore dell’Oceano, un diamante costruito come pretesto per la storia d’amore di Rose e Jack. Gioiello che poi viene subito dimenticato.
In Pulp Fiction invece la valigetta recuperata con mille espedienti da Vincent e Jules non rivelerà mai il suo contenuto se non l’accecante luce che si sprigiona sul viso di Travolta al momento della sua apertura. In Psycho l’inizio della storia lascia pensare all’importanza della busta piena di soldi che Marion ruba. Falsa aspettativa, meccanismo narrativo subito dimenticato. Nel suo libro In acque profonde David Lynch dichiara apertamente che la Scatola Blu nel film Mulholland Drive è un MacGuffin, ovviamente privo di significati. La scatola è proprio un nudo meccanismo costruito per dar vita alla storia, per svegliare lo spettatore dal torpore procurato dall’andamento criptico e lento della prima parte del film.
Il filosofo tedesco Hans Blumenberg, grande studioso e investigatore del mondo dei miti, delle metafore e dei luoghi comuni, autore tra l’altro di Elaborazione del mito e La legittimità del mondo, dedica un saggio proprio al MacGuffin considerando quel meccanismo utile a: “… preservare il desiderio di pensare”. Per il filosofo lo svelamento del meccanismo a François Truffaut da parte di Hitchcock deve essere enfatizzato: pronunciare quel nome significa alzare il livello di suspense intorno alla sua identità, a quel qualcosa la cui logica ci sfugge. Anche se il pacco nel portabagagli non dovesse esistere, è stato comunque il motivo per dar vita a una conversazione che altrimenti forse non sarebbe mai iniziata e non avrebbe tenuto per un poco occupati i due uomini. Nel MacGuffin è condensato un segreto che giustifica e mette in moto azioni e atteggiamenti tutti volti all’accrescimento e al mantenimento della suspense. Uomini presunti portatori di informazioni particolarmente importanti, formule, disegni, oggetti la cui presenza dà l’idea d’esser strumento di vita o di morte si rivelano sempre essere artifici inesistenti o marginali, pretesti strumentali.
Per Blumenberg anche i filosofi debbono avere il loro MacGuffin per poter preservare il lavoro del pensiero e insieme mantener vivo l’interesse nei suoi risultati. “La leggendaria seconda parte di Sein und Zeit non è mai stata scritta perché non si è osato scriverla. Chiunque si sia apprestato alla spedizione verso il centro dell’Essere come inteso dal Dasein sussulta prima che la banalità di ciò possa esser portata alla luce al termine delle analisi esistenziali e nel centro dell’incantevole cerchio dell’orizzonte del tempo”.
Il regista garantisce d’aver costruito in “North by Northwest” il miglior MacGuffin che è sempre il più vuoto, quello inesistente
Blumenberg ritiene che Heidegger in uno dei lavori filosofici più significativi del secolo abbia temuto di rischiare il significato della sua opera se non avesse deciso di lasciarla a livello di frammenti. Il MacGuffin dell’Essere ha svolto il proprio ruolo, l’effetto sul pubblico è stato mozzafiato, quelli che non avevano mai sentito il termine ancora gli stan girando intorno. E’ proprio vero che non ci sono leoni nell’Adirondack – continua Blumenberg – ma guai al viaggiatore che dubita sulla presenza di un marchingegno per intrappolarli.
La noia sarà la punizione per chi non intende lasciarsi sedurre dalla suspense proprio come chi, sapendo che il significato dell’Essere è senza senso, sarà colto da una crescente e persistente noia carica di sbadigli fin dal momento dei preparativi per il viaggio verso la terra incognita della comprensione dell’Essere. “Quando il fuoco di tutti i fuochi è andato perduto, la punizione di tutte le punizioni è la noia quale compimento del tedio per l’Essere. Il suo desiderio più urgente è venire disturbato. La curiosità è il disturbo della noia. Il MacGuffin è Epifania”.
Se il cinema è luogo e terreno di nascita del termine, il suo uso invade non pochi ambiti. Andrea Coccia ad esempio considera il MacGuffin un’arma di distrazione di massa del giornalismo, “… un oggetto non informante e ben identificato che scatena dibattito e indignazione su se stesso facendo dimenticare il contesto”. Cita l’esempio della foto del bambino siriano morto su una spiaggia turca. La foto si diffonde ovunque nel mondo tra l’indignazione ed il raccapriccio. “Alla prima occhiata tutti pensano alla tragedia dei profughi, alla seconda stanno provando compassione sfrenata per il bambino, alla terza occhiata provano orrore per la foto”. Pian piano pochi ricordano che quella foto non è il bambino morto, ma la foto del bambino morto e che in realtà gli annegati sono migliaia. La foto altro non è che un pretesto narrativo privo di contenuto, un vero MacGuffin. Pochi giorni e tutto si dimentica.
Nel “Falcone maltese” di Huston la misteriosa statuetta del falcone nel finale rivela la sua totale inconsistenza e falsità
Nel romanzo di finzione e illusione di Michele Mari Roderick Duddle, dove – come scrive Carlo Mazza Galanti su Alias – “… la storia di questo novello Oliver Twist, portatore inconsapevole di una ricca eredità, con tanto di medaglione a garanzia del lascito”, è il medaglione appunto il MacGuffin che solo può consentire il riconoscimento di Roderick quale legittimo rampollo dei nobili Pemberton in un vortice di vicende e personaggi, prostitute, assassini, avvocati, marinai.
Pare che tutto sia cominciato con una telefonata che Enrique Vila-Matas ricevette una mattina da tal Maria Boston che si qualificava segretaria dei Signori MacGuffin, una coppia d’irlandesi interessati a invitare lo scrittore a cena per illustrargli una proposta irrinunciabile, forse addirittura rivelargli “la soluzione del mistero dell’universo”. Venendo meno ai suoi principi di non uscire mai la sera Enrique accetta. Tre sere dopo si reca all’appuntamento, dove incontra una ragazza luminosa, alta, vestito rosso e meravigliosi sandali dorati che candidamente confessa che i MacGuffin non esistono. La richiesta di Maria è d’invitare Vila-Matas a partecipare all’esposizione internazionale Documenta di Kassel passando tre settimane la mattina nel ristorante cinese Dschingis Khan alla periferia di Kassel per scrivere in pubblico. Nient’altro, così vogliono i due curatori Carolyn e Chus. Lo scrittore dovrebbe anche tenersi pronto per una serie di conferenze alle quali non dovrebbe partecipare nessuno.
Francesca Borrelli ricorda che Vila-Matas “nella valigia ha messo il Romanticismo di Rüdiger Safranski, che lo rimanda alla frase di Nietzsche secondo cui ‘Solo come fenomeno estetico l’esistenza e il mondo sono eternamente giustificati’, massima che Vila-Matas tiene a cuore come viatico al mondo artistico nel quale si immergerà di lì a poco”. Un mondo in realtà quasi totalmente privo di qualità estetiche. Lo scrittore già sa che l’arte ha da tempo abdicato alle sue relazioni col bello tentando piuttosto l’impossibile impresa di sgretolare il suo statuto. Forse non ci si può accontentare dell’asserzione di una delle curatrici di Documenta per la quale l’arte sarebbe soltanto “una disposizione d’animo”. Meglio dire che se il sistema che governa l’arte è ripetitivo, polveroso, avido, ricco di noia e sbadigli altro non può significare che le opere d’arte – cioè proprio i MacGuffin che hanno il compito di vivificare, dar luce, energia nuova all’ambiente continuano a mancare il loro obiettivo. Il già visto, fatto e detto ci sprofonda nella malinconia, nella disperazione.