Perdere la faccia
E poi farsela ricostruire, o trovarne una nuova. Dai feriti della Grande guerra al trapianto più arduo: maschere, bisturi e inquiete identità
… Ora, si guarda nel vetro.
La scheggia di granata gli ha strappato la mascella inferiore; sotto il naso,
il vuoto, si vede la gola, la volta, il palato e solo i denti sopra,
mentre sotto c’è un magma di carni scarlatte con qualcosa in fondo,
deve essere la glottide, la lingua è sparita, l’esofago è un buco rosso umido…
Édouard Péricourt ha ventitré anni.
Sviene.
Pierre Lemaitre, “Ci rivediamo lassù”, 2013
Katie aveva 18 anni quando perse la faccia. Era stata una bambina coraggiosa e divertente, ha raccontato la sorella maggiore, e poi una ragazza molto competitiva. Le cose cominciarono ad andare storte verso la fine delle superiori: un intervento chirurgico, il licenziamento della madre, un amore finito male. Uno degli ultimi giorni di marzo del 2014 prese il fucile da caccia del fratello, si chiuse in bagno, puntò la canna sotto il mento e premette il grilletto. Il fratello, dopo aver sfondato la porta, fu il primo a vedere in mezzo a tutto quel sangue che la sua faccia non c’era più. Il proiettile le aveva portato via parte della fronte, il naso, la bocca, quasi tutta la mandibola e la mascella. Ma l’aveva lasciata viva.
Katie a 18 anni tentò il suicidio con un colpo di fucile puntato sotto il mento. Il volto era devastato, ma adesso ne ha un altro
La donna sottoposta in settembre al primo trapianto facciale in Italia, che non è riuscito, è di nuovo in attesa di un volto
Anche Édouard è giovane, solo la divisa e i mesi di trincea lo invecchiano un po’. Cresciuto in una famiglia dell’alta borghesia parigina, è stato un ragazzo vivace e irriverente, con la passione per il disegno. La sua faccia la perde in un assalto della fanteria francese sul fronte occidentale. Uno degli ultimi, inutili assalti, perché mancano pochissimi giorni all’armistizio dell’11 novembre, alla fine della guerra. Un sibilo più penetrante, in tutto quel frastuono, e una scheggia di granata lo colpisce e gli polverizza la mandibola. Resta la vita, anche per lui, che però non ha più bocca né voce per urlare il suo dolore né coraggio per farsi vedere.
Katie Stubblefield era la protagonista della storia di copertina del National Geographic di settembre: un trapianto facciale totale, ai primi di maggio dello scorso anno a Cleveland, più una ventina di interventi chirurgici prima e dopo l’operazione principale per ripristinare funzioni primarie, per curare e scongiurare infezioni e per farle avere infine, a 21 anni, un volto nuovo e non più deturpato. Édouard Péricourt invece è il personaggio di un romanzo di Pierre Lemaitre (Au revoir là-haut, premio Goncourt nel 2013 – in italiano Ci rivediamo lassù per Mondadori), ma in carne e ossa potrebbe essere stato uno dei quindicimila soldati francesi feriti al volto nel corso della Prima guerra mondiale, o uno degli oltre cinquemila italiani, o uno degli inglesi o dei tedeschi che rimasero sfigurati da una pallottola o dai frammenti di una granata. Certo, per le gueules cassées – così li avevano battezzati in Francia: i “musi rotti” – un trapianto di faccia non era nemmeno immaginabile, e anche se non mancavano i precedenti in pace e in guerra, è stato allora che la più orribile delle ferite di combattimento – se ammettete che una sfacciata e sofferta mostruosità al posto del volto, con frequenti complicazioni a funzioni basilari come la masticazione e la respirazione, sia più orribile di un braccio perso o di due gambe maciullate; se considerate che una tale mutilazione possa essere percepita come la più disumanizzante, perché è lì che si riconosce l’essere umano nella sua individualità – è stato allora che quelle ferite sono calate di schianto sui tavoli operatori. In quel numero non se n’erano mai viste. Ora la guerra di trincea rendeva il volto la parte più esposta, il metallo delle pallottole o delle schegge disintegrava le ossa della faccia, gli elmetti metallici, introdotti nell’estate del 1915, avevano sì ridotto la mortalità, ma proteggevano in qualche modo solo il capo, e a volte erano causa di altre ferite: se colpiti potevano esplodere e i loro frammenti si infilavano negli occhi, nelle orecchie.
Con le guerre al tempo dei droni succede ancora. Secondo dati riportati dal New York Times, nei conflitti ai quali hanno partecipato gli Stati Uniti negli ultimi cento anni, le ferite al volto incidono tra il 17 e il 21 per cento sul totale, e arrivano al 40 per cento – quattromila uomini, in termini assoluti – nel caso delle guerre in Iraq e in Afghanistan. E’ stato il dipartimento della Difesa americano a rendere possibile il trapianto di Katie Stubblefield. Attraverso l’Armed Forces Institute of Regenerative Medicine, che finanzia anche i trapianti di mani, la Cleveland Clinic ha ricevuto 2 milioni di dollari destinati alla ricerca sui trapianti facciali.
Un secolo fa c’era poco da fare. Anzi, tantissimo. Ricucire quando possibile. Tentare di ricostruire, come prese a fare Léon Dufourmentel in Francia trapiantando lembi di cuoio capelluto all’altezza di un mento che non c’era più (e ahimè, infliggendo al paziente ulteriori pene per rieducare la masticazione). Combattere costantemente le infezioni e arrendersi quando portavano alla morte – Alexander Fleming non aveva ancora inventato la penicillina. Lenire le sofferenze – la morfina già si usava. Celare, assistere, accudire. Dufourmentel non fu l’unico. All’indomani della disastrosa battaglia della Somme, che solo il primo giorno, nel luglio 1916, costò all’esercito britannico oltre 19 mila vite umane e continuò per mesi, le autorità di Londra aprirono a Sidcup nel Kent, campagna a sud-est della capitale, un ospedale specializzato in ferite al volto. E’ considerato il primo reparto al mondo dedicato esclusivamente alla chirurgia ricostruttiva maxillo-facciale. In Italia i pionieri furono due medici bolognesi, Arturo Beretta e Cesare Cavina, che operavano a ridosso delle prime linee con tecniche innovative e continuarono anche dopo la guerra, a Bologna, dove Cavina trasformò l’ospedale militare nell’Istituto clinico per le malattie della bocca.
Ma poi. Non tutto riusciva, non tutto era possibile. Nel romanzo di Lemaitre, Édouard, superata la fase del dolore e dell’incoscienza, visto il proprio vago riflesso nel vetro di una finestra, rifiuta ogni intervento, rinnega il padre e gli agi famigliari, per scomparire allo sguardo degli altri si cela dietro una nuova identità. Molti riuscirono a nascondere alla meglio i macabri effetti di uno shrapnel sui propri connotati. Altri si rassegnarono a nascondere se stessi in comunità di simili isolate dalla società. Allora come oggi vedere un volto deturpato o intuirlo dietro una maschera o un velo, o ancora riconoscere il volto che si vede come finto o addirittura acquisito, era un’esperienza che inquieta e spaventa. Che turba. Das Unheimliche – Il perturbante – è il titolo di un breve saggio pubblicato da Sigmund Freud proprio in quel periodo, all’indomani della guerra, nel 1919. Un testo che si occupa formalmente di tutt’altro, di estetica soprattutto, anche se intesa non solo come “teoria del bello” ma “come la teoria delle qualità del nostro sentire”. E tuttavia, scorrendo le prime pagine, è troppo forte la tentazione di leggervi in filigrana altro che una fonte letteraria, specie quando Freud scrive che il perturbante “appartiene alla sfera dello spaventoso, di ciò che ingenera angoscia e orrore”. Che in tedesco, “questo termine heimlich appartiene a due cerchie di rappresentazioni che, senza essere antitetiche, sono tuttavia parecchio estranee l’una all’altra: quella della familiarità, dell’agio, e quella del nascondere, del tener celato. Nell’uso corrente, unheimlich è il contrario del primo significato, ma non del secondo”. E ancora, che “unheimlich, dice Schelling, è tutto ciò che sarebbe dovuto rimanere segreto, nascosto, e invece è affiorato”.
La guerra di trincea rendeva il viso la parte più esposta. Pallottole e schegge disintegravano le ossa della faccia. Succede ancora oggi
Isolarsi, nascondersi al proprio e agli altrui sguardi. Le protesi restituivano ai soldati mutilati e sfigurati il senso di sé
Al Queen Mary di Sidcup, dal 1917 al 1925 il primario Harold Gillies eseguì undicimila operazioni su cinquemila soldati britannici. Un altro chirurgo, Henry Tonks, che con la guerra era tornato alla professione ma da tempo era più noto come pittore, realizzò una impressionante galleria di ritratti dei pazienti, prima e dopo gli interventi. I soldati feriti, sfigurati, mutilati restavano anche per mesi nella struttura, fraternizzavano, imparavano un nuovo mestiere, uscivano qualche volta, ma quando andavano al paese vicino indossavano sempre un abito dai colori accesi perché la loro presenza fosse notata anche da lontano. Il segnale che il nascosto stava affiorando. Nel dopoguerra francese le gueules cassées trovarono ad accoglierle associazioni come l’Union des blessés de la face et de la tête, fondata nel 1921, e benché il motto fosse “sorridere comunque”, molti, incapaci di tornare alle vecchie vite, alle abitudini domestiche o alle responsabilità pubbliche, si rifugiarono negli spazi appartati che offriva loro l’associazione: una cortina sul mondo che nel ‘27 prese la forma del castello di Moussy-le-Vieux, a una quarantina di chilometri da Parigi. Altri, nella capitale francese, avevano scelto un’altra strada. Salivano al quinto piano di un antico palazzo e bussavano alla porta dell’atelier di Anna Coleman Ladd, una quarantenne di Filadelfia senza alcuna formazione professionale in campo medico, ma con le pareti dello studio tappezzate di maschere dalle sembianze umane. Da giovane aveva vissuto a Roma e a Parigi, dove aveva studiato scultura ed era stata allieva fra l’altro di Rodin. Di nuovo in America, aveva realizzato statue di ninfe e satiri per giardini e fontane e pure un ritratto di Eleonora Duse, il suo picco di celebrità. A Parigi era tornata durante la guerra, con il marito medico della Croce rossa americana richiamato in Europa. Sull’esempio di Francis Derwent Wood, che a Londra aveva fondato un dipartimento di maschere per visi sfigurati, nel 1918 aveva aperto anche lei un laboratorio di maschere protesiche. Modellava con la creta le eventuali parti del volto mancanti, faceva depositare sottili strati di rame e argento sul calco, con un bagno di smalto applicava il colore dell’incarnato, appoggiava la maschera al volto facendola sostenere da un paio di stanghette da occhiali. Un mese di lavoro per un oggetto che rendeva felice chi lo portava, anche se la maschera celava e basta: era una faccia che non poteva masticare, sorridere o baciare. E col tempo un po’ si rovinava, un po’ non riusciva a nascondere la propria natura di artificio. “Nel restaurare in qualche modo la faccia di un soldato distrutta da una pallottola”, scrive Sam Kean in un capitolo del Duello dei neurochirurghi, pubblicato di recente in Italia da Adelphi, “Ladd cercava anche di restituirgli il senso di sé. Non aveva modo di sapere, però, come avrebbero reagito gli altri e se il mondo – ivi compresi i pazienti stessi – avrebbe dato ai nuovi volti la patente di autenticità. (…) Rimanevano senza risposta le domande più profonde e psicologiche sollevate dal suo lavoro: la nostra mente si può adattare a vedersi con un’altra faccia allo specchio? Il nuovo aspetto cambia la percezione di sé?”.
La mente di Isabelle Dinoire – facciamo un balzo temporale di quasi cent’anni – sembrava che si fosse adattata: quattordici mesi dopo l’intervento, un trapianto parziale di faccia nel novembre 2005, il primo in assoluto nel mondo, era tornata a ridere, dopo aver riconquistato a fatica la mobilità facciale. E aveva ripreso anche la vita sociale che si era negata prima dell’operazione. Quello stesso anno, in maggio, mentre dormiva sotto una forte dose di tranquillanti, il suo labrador retriever le aveva azzannato la faccia portandole via naso, guance e labbra. Con l’organismo indebolito dai farmaci, un tumore e una crisi di rigetto, Isabelle Dinoire è morta a 49 anni nel 2016.
Aggredita non da un cane ma da una malattia rara, anche la donna sottoposta al primo trapianto facciale in Italia, il 22 settembre scorso all’ospedale Sant’Andrea, a Roma, conta di poter tornare alla vita sociale. Ma per il momento è lì, nel limbo dell’attesa dopo che il viso che le aveva donato Giorgia, una ragazza di 21 anni morta in un incidente stradale qualche giorno prima, non ha trovato i canali giusti per irrorarsi di sangue e mantenersi in vita sul corpo di un’altra persona. Le sue condizioni “permangono stabili, pur rimanendo una paziente critica”, dice l’ultimo bollettino medico di giovedì scorso. “Non è più ricoverata in terapia intensiva, ma resta in cura presso un reparto di degenza sotto stretto controllo da parte di una équipe medica multispecialistica per le condizioni idonee al successivo trapianto”. Perché ora ha un volto provvisorio. Quello nuovo, che proveranno a ricucirle addosso, in questo momento è in giro da qualche parte non troppo lontano da lei e fa tutt’uno con un’altra persona, che non pensa minimamente che tra un giorno, un mese o un anno perderà la vita, ma la sua faccia riuscirà a invecchiare.