Vogliamo cultura o politica culturale?
Quando si chiedono alla politica sussidi pubblici si dimentica che nel “settore cultura” non tutto è cultura. Perché molti sussidi e poco rischio producono un sistema destinato a morire
Da tempo la cultura diffida di se stessa. Gli scrittori satirici e comici classici e moderni, da Aristofane a Molière, da Flaubert a Orwell, hanno rivelato le deformazioni umane e caratteriali dei filosofi, dei sapienti, dei dotti, dei pedanti, degli intellettuali snob e maniaci del sapere. L’autocritica della cultura ha sempre fatto parte della migliore cultura, che sa guardare se stessa “da fuori”. Con l’attacco illuminista al dogma religioso, alla tradizione, alle superstizioni e ai preziosismi che isolano “la classe dei colti” dalla vita, dalla pratica, dall’azione, dal popolo, nasce la moderna critica della cultura come maschera ideologica, copertura, ipocrisia. Stile critico che accomuna Marx a Nietzsche e Freud, dai quali avrebbero imparato in molti.
Nella famosa poesia Il presupposto culturale, scritta verso la fine degli anni Trenta, un poeta intellettuale come Auden vede la cultura in quanto apparato difensivo che invece di essere uno strumento di conoscenza funziona piuttosto come protezione contro la conoscenza di sé e della realtà. Libri nuovi, ambienti confortevoli, giardini, amore, lo sport con le sue regole, la musica, l’artigianato, ci aiutano a non vedere, a non sentire tutto ciò che incombe dall’esterno sulla società-cultura come una continuamente rimossa minaccia di alterità e distruzione, o come coscienza del destino di coloro che della stessa civiltà sono vittime.
Conoscendo il talento e l’estro inventivo con cui Guido Vitiello esercita la critica, leggo e sfoglio con curiosità un libro da lui prefato e a cura di Filippo Cavazzoni, Il pubblico ha sempre ragione? (IBL libri, 230 pp., 18 euro). Contiene sedici capitoli di altrettanti autori che esaminano in tre sezioni distinte vari tipi di politiche culturali: sull’educazione, la pianificazione urbanistica, il patrimonio paesaggistico, il mercato dell’arte, le biblioteche, le tv, internet, gli smartphone, il teatro, la musica colta, il libro e i suoi lettori… Con funambolica, eruditissima ironia, Vitiello dice nella prefazione che questo libro colma un precedente, demoralizzante vuoto italiano a proposito di critica del sistema culturale alimentato a finanziamenti pubblici.
In una società che non dimentichi di essere liberale oltre che democratica, gli individui “creativi” e addetti alla cultura devono per prima cosa badare a se stessi, difendere la propria libertà prevedendo, affrontando e non schivando i rischi che ogni libertà comporta. Quando si chiedono alla politica e allo stato sussidi pubblici e investimenti per la cultura, si dimentica spesso che nel “settore cultura” non tutto è cultura e che la cultura non è un valore in sé e per definizione. Non è un fatto, è una qualità che si riconosce e si stabilisce solo a posteriori, giudicando ogni volta il prodotto, non le dichiarazioni di intenti. Questo vale soprattutto per le arti, oggi innumerevoli in un paese e in un’epoca (postmodernità, se volete) in cui tutto è cultura e quasi tutto è arte: la messa in scena del Flauto magico, la costruzione di una statua pubblica o di una fontana, i tatuaggi, la pubblicazione di una biografia, l’apertura di una biblioteca di quartiere o di un centro sociale, l’esecuzione di murales o di graffiti sui vagoni della metropolitana, l’installazione di un mostro metallico davanti a una stazione o nelle sale di una galleria d’arte. Forse c’è in giro tanta arte, perché c’è in giro pochissima critica d’arte che non sia promozionale.
Come ammonimento, Vitiello ricorda che in Germania è stato pubblicato un volume che parla di “infarto culturale di una cultura appesantita da troppi sussidi pubblici” e in Francia è uscito sullo stesso tema Lo stato culturale di Marc Fumaroli. Ma è il caso del Messico analizzato da Gabriel Zaid che dovrebbe farci più paura: “Un paese esotico dove, alla corte di uno stato mecenate, è cresciuta una fauna parassitaria di burocrati ottusi, di mediocri di talento e di sindacati irresponsabili; dove l’istruzione superiore produce in serie ignoranti che non sanno neppure di non sapere; dove ogni settimana i banchi delle librerie sono inondati di libri mal tradotti, mal curati, imbottiti di refusi, tanto da spingere a chiedersi se l’editore li abbia anche solo sfogliati prima di stamparli; dove le istituzioni culturali sprecano milioni di iniziative che hanno la sola ragione di far sapere al mondo che esistono... Vedete bene che il Messico descritto da Zaid è una gigantografia dell’Italia, salvo che a noi mancava una cosa: un libro che ci mettesse allo specchio”.
Quando la smania di sicurezza e di garanzie tocca la cultura, allora la creatività individuale in cui crediamo di credere può diventare una finzione o una truffa. In realtà, per amore della cultura andrebbe difeso il diritto al rischio.