Torino, tutto meno l'apertura
Dal 2016 Nicola Lagioia dirige il Salone del Libro. “Questa città mi sembra metà Cuneo, metà Seattle. Non si capisce dove comincia l’una e finisce l’altra”. L’unico modo per farla crescere, dice, è “giocare in attacco”
Torino. Corso San Maurizio, otto di mattina. Nicola Lagioia arriva, occhialoni neri da vista e trolley di chi è in partenza per una quarantott’ore fra Perugia, Roma e Londra. Lo scrittore è in pieno fermento per la nuova edizione del Salone del Libro di Torino – che dirige dal 2016 – anche se i problemi non mancano. A gennaio la vecchia Fondazione del Libro è andata in liquidazione, il marchio è in mano al liquidatore che lo ha messo all’asta, al vecchio patron Rolando Picchioni è stato contestato un peculato da 800 mila euro. Il presidente del Circolo dei Lettori Massimo Bray – al quale poi è stata affidata la gestione – s’è dimesso improvvisamente a settembre. “È scomparso, non ha sentito bisogno di dare spiegazioni. Un gesto che mi lascia perplesso. Da chi ha fatto il ministro della Cultura mi sarei aspettato un atteggiamento più istituzionale”, dice Lagioia.
Insomma il Salone è in una lunghissima fase di transizione. L’autore di “La Ferocia”, vincitore del premio Strega, si è però messo al lavoro anche se è senza contratto e non può nemmeno disporre del marchio (non può neanche usare gli account di Twitter e Facebook). D’altronde, spiega davanti a un cappuccino e a un cornetto vegano, l’unico modo per far crescere Torino è “giocare in attacco”. Non tutti però sembrano pensarla così. “Appena arrivato, la gente mi diceva: sai perché il Salone lo hanno affidato a te? Perché non sei di Torino, perché sicuramente andrà male e la colpa non ce l’avrà un torinese” (Lagioia è di Bari e si divide fra Torino e Roma). Non una grande accoglienza. Invece il Salone è stato un grande successo, come testimoniano i numeri.
Nicola Lagioia è di Bari, dal 2016 dirige il Salone del Libro (foto LaPresse)
Poco dopo il suo arrivo trovò un tassista molto arrabbiato perché Milano stava per “scippare” il Salone, concetto con cui i torinesi sono piuttosto fissati. Dopo dieci minuti di viaggio e di lamentele contro Milano, Lagioia lo interruppe: “Veramente il direttore sarei io, le assicuro che il Salone si fa”. A quel punto il tassista si girò e disse allo scrittore, fissandolo negli occhi: “Questo lo dice lei!”. Qualche tempo dopo, quel tassista si è presentato al Salone con la famiglia, la suocera, la nuora, per dare il suo contributo, fedele alla linea sabauda di una città che, dice Lagioia, “è militare”. “I torinesi hanno una capacità di giocare in difesa che è fortissima. Però alla città manca l’apertura”.
Lagioia l’ha provato sulla sua pelle. “Un po’ di malumori per il fatto che non sono di Torino c’erano. Ma se sei una città ambiziosa devi essere capace di attirare quelli che stanno fuori”. Anche perché la città è ricca di eventi, di luoghi, argomenta lo scrittore, “ha cose che non ci sono in quasi nessuna città italiana, a parte Milano che è la vera rivelazione del ventunesimo secolo. C’è il Salone, la scuola Holden, il Circolo dei Lettori, il complesso delle Officine Grandi Riparazioni, sul quale la Fondazione Crt ha messo 80 milioni. C’è il Polo del Novecento, c’è Artissima”. Ci sono i soldi, nonostante tutto, ancorché celati dietro il famoso understatement torinese. Lagioia ricorda una battuta de “Le Amiche” di Michelangelo Antonioni, dove una torinese dice alla romana: voi romane volete spendere poco per i vestiti e però avere i vestiti super appariscenti. Mentre noi torinesi spendiamo tantissimo e non si vede nulla perché dobbiamo avere l’understatement. “Qui, nonostante l’understatement, c’è ricchezza. Torino avrebbe tutti i numeri per giocare un ruolo competitivo, ha soldi e un’etica del lavoro molto forte. Certo, è competitiva – chessò – rispetto a Bari, ma dovrebbe esserlo anche rispetto a Barcellona”.
Quando Lagioia spiega queste cose ai torinesi, riceve in cambio due risposte, di cui una, dice, veramente spiazzante. La prima: “Dovremmo aprirci di più ma abbiamo paura, perché una eccessiva apertura ci potrebbe far perdere quello che abbiamo”. Ecco, dice Lagioia, “io questa risposta, con il beneficio del dubbio, la capisco. Ma è l’altra risposta che non capisco”. Quale? “Mi dicono: ‘Chi ti ha detto che vogliamo crescere? Noi stiamo benissimo così’. Ma se io avessi avuto questa mentalità il Salone non si sarebbe fatto”. Il lavoro di Ernesto Ferrero è stato fondamentale, Lagioia ha cercato di allargare le potenzialità del Salone, chiamando una serie di consulenti, “e mica sono tutti di Torino”, dice. C’è Rebecca Servadio che sta a Londra ed è a capo della London Literary Scouting. Il Salone poi, certo, “è loro”, dei torinesi, precisa il direttore. “Quando da Milano sono venuti a proporci l’alternanza, noi gli abbiamo detto di no”. Ma la città non può essere schiacciata tutta su se stessa. “Io vengo dalla provincia, quindi l’elemento provinciale è bello perché ti dà solidità. Però non basta. Torino mi sembra metà Cuneo, metà Seattle. Non si capisce dove comincia l’una e finisce l’altra”.
Presto lo capiremo, anche a seconda di come proseguiranno le cose con il Salone. Verso metà novembre, fine novembre, si capirà se “il Salone è una cosa troppo grossa che Torino non si può permettere” oppure se una città così ambiziosa può giustamente competere con Milano. D’altronde, “se tu non vuoi farti scippare una cosa, devi combattere. Noi quando siamo arrivati siamo stati dei pit bull. Ecco, non vorrei che uno si facesse fregare per eccesso di aristocrazia o per buoni modi”.