Ecco perché siamo diventati giustizialisti
Viviamo nell’èra del castigo. Un libro su quella passione contemporanea che è punire
Viviamo in un’epoca di punizioni, siamo entrati recentemente in un’èra del castigo? La risposta è sì e secondo il sociologo e antropologo francese Didier Fassin questo è un problema che andrebbe culturalmente e politicamente affrontato. L’idea è illustrata, documentata e argomentata nel suo libro "Punire. Una passione contemporanea" (Feltrinelli, 186 pp., 19 euro). Siamo ovviamente nei dintorni e nella scia di Michel Foucault, il filosofo-sociologo più amato e influente negli ultimi decenni del Novecento, tuttora bibbia e abbecedario di innumerevoli intellettuali che si vogliono critici radicali o perfino “sovversivi”. Quasi ogni libro di Foucault è diventato, fin dal titolo, un programma, una fonte di ispirazione; ma il suo Sorvegliare e punire, uscito nel 1976, è il suo più definitivo, sintetico e memorabile, in quanto funziona come definizione-slogan passepartout dei nostri mali sociali.
In effetti, con l’individuazione di un tale tema, Foucault ha fatto centro. La “totalizzazione” o razionalizzazione sempre crescente della società, il programma illuministico che vede l’espansione della razionalità su tutti i fenomeni e le azioni sociali e microsociali, dalla sfera pubblica a quella privata, dall’infanzia alla senilità e alla morte, dalla salute alla malattia, dalla guerra alla pace, dal commercio dei beni al commercio comunicativo e sessuale, ha origine da una idolatria della dea Ragione come dea del Bene.
Il guaio è che, come ogni idolatria, anche questa ne ha creata un’altra uguale e contraria: l’idolatria dell’irrazionale, della trasgressione, della colpa e del “male” in quanto liberazione positiva degli istinti e della natura che la società reprime, perseguita e castiga. Brutta dicotomia, che nella sua smania di chiarire i conflitti una volta per tutte ne complica all’infinito l’interpretazione e la valutazione: perché nel primo caso il bene razionale viene visto (criticamente) come un male, mentre nel secondo caso il bene è (dialetticamente) nella trasgressione, nell’irrazionalità o perfino nella follia e nel crimine.
Per i foucaultiani radicali, di primo, secondo e terz’ordine, la “profanazione” dei valori e delle norme sociali e morali restituisce l’umanità, la socialità, la natura alla purezza antistorica o astorica del loro “essere”. Che cosa sia, però, questo essere originario in nome del quale si misurano e si giudicano i vincoli costrittivi e le aberrazioni storiche, nessuno è riuscito a dirlo. Contro il cattivo “due” di ragione e follia, norma e trasgressione, che si alimentano a vicenda, si dovrebbe perseguire quell’“uno” buono che fa pensare o all’utopia comunista o al paradiso terrestre.
Ma qui ho messo il piede nel groviglio tra French Theory e Italian Thought e nei sofistici, oscuri magnetismi scolastici su cui l’equivoca ma proficua alleanza si regge. Insomma, da Bataille e Foucault a Toni Negri e Agamben. Torno al povero Didier Fassin che, bisogna dire, filosofeggia poco (benché implicitamente presupponga), muovendosi più cautamente tra fatti e statistiche. La sua ricerca vuole mostrare che “nell’ultimo decennio, il mondo è entrato in un’èra del castigo. Le infrazioni alla legge vengono sanzionate con sempre maggiore severità” e “la svolta repressiva (…) si protrae anche quando le attività criminali diminuiscono”. Per esempio: “In Italia, in quarant’anni, la popolazione carceraria è più che triplicata, e gran parte di questo numero si è prodotto negli anni Novanta, quando abbiamo assistito al raddoppio del numero dei detenuti (…) Una tendenza simile è osservabile in tutta Europa”. Ma la cosa si riscontra anche in America (Stati Uniti esclusi), in Asia, Africa e Oceania.
Se è vero, come diceva Hobbes più di tre secoli fa, che “un crimine è una colpa consistente nel fare, sia con le azioni che con le parole, ciò che è vietato dalla legge, oppure di non fare ciò che la legge prescrive”, allora bisogna supporre che la criminalità sociale aumenta e viene punita quanto più si moltiplicano le norme e quanto più lo stato legifera a proposito di qualunque comportamento. Quanto più la socialità si statalizza razionalizzandosi, tanto più si diventa tutti potenzialmente colpevoli. Una rete di norme ci avvolge.
Ma ancora una volta succede qualcosa di sospetto. Oltre al fatto che si punisce più spesso chi pecca ai livelli bassi della scala economica e sociale che non ai livelli alti del potere e del privilegio, accade per esempio che i politici e i militari non siano considerati colpevoli dei delitti e delle sventure provocate dalla loro azione o non azione. Sembra quasi che un ministro o un generale non siano persone ma entità anonime. Come ha scritto Kafka, “qualunque impressione faccia su di noi, egli è un servo della legge, dunque appartiene alla legge e sfugge al giudizio umano”.