La rivincita letteraria del new weird italiano (ma non chiamatelo sottogenere)
Il “nuovo strano” per raccontare una realtà troppo complessa
Si parla molto, in questi tempi che non difettano del resto di stranezza, di new weird: termine coniato dal critico e scrittore inglese M. John Harrison, e reso popolare dall’americano Jeff VanderMeer con saggi, raccolte di testi e una trilogia – quella di “Area X”, pubblicata in Italia da Einaudi – divenuta oggi paradigma del sottogenere in questione. Il dibattito è così arrivato anche in Italia. Che si parli di Strano italiano, new Italian weird o Novo sconcertante italico, sempre lo stesso fenomeno si va a registrare: l’emergere con forza di narrazioni che, pur afferenti per stile e aspirazioni alla cosiddetta literary fiction, sfondano, e senza farsi troppi problemi, le barriere tra i generi, finendo per attingere elementi e dispositivi narrativi dal fantastico, dalla fantascienza e dall’horror, dando così vita a forme nuove del perturbante.
Il termine ha cominciato a fare capolino nel nostro dibattito letterario per descrivere romanzi, usciti tra la fine del 2015 e l’inizio del 2016, come “Il grande animale” di Gabriele Di Fronzo o “Dalle rovine” di Luciano Funetta, che appaiono influenzati, più che dalla sci-fi o dal fantasy, dal filone più oscuro della letteratura latinoamericana. Il genere si è poi espanso fino a includere opere molto diverse: i “gotici mediterranei” di Andrea Gentile (“I vivi e i morti”), Orazio Labbate (“Suttaterra”) e Andrea Morstabilini (“Il demone meridiano”); la nuova onda distopica rappresentata, tra gli altri, da “Miden” di Veronica Raimo, “La festa nera” di Violetta Bellocchio, “Un attimo prima” di Fabio Deotto, “XXI secolo” di Paolo Zardi; opere di difficile classificazione come “Cometa” di Gregorio Magini o “Medusa” di Luca Bernardi, in cui l’elemento fantastico – in un caso un’esplosione finale di sapore accelerazionista, nell’altro degli alieni che commerciano in sentimenti – integra una narrazione per lo più realistica, fino a romanzi, come “108 metri” di Alberto Prunetti, in cui si ricorre ai miti di Lovecraft per dare maggior forza a una narrazione non solo realistica ma anche socialmente impegnata, se non addirittura materialista nell’accezione storica del termine.
Si capisce che quando un’etichetta comincia a includere testi così variegati, è già tempo di metterla in discussione – oppure di chiedersi se non sia semplicemente il segnale di qualcosa di più ampio e forse preesistente. Guardando indietro, ma neanche troppo, alla nostra narrativa, si possono trovare opere che anticipano in modo chiaro queste tendenze: Laura Pugno con “Sirene”, si muoveva già nel 2007 in un ambito – ibridazioni uomo-animale, futuri distopici, transumanesimo, nuove forme del femminismo – che più vandermeeriano non si può; un anno prima, Alcide Pierantozzi innestava con forza dispositivi horror nella nostra tradizione letteraria con “Uno in diviso”, e addirittura nel 1994 Niccolò Ammaniti, col suo esordio “Branchie”, fissava su carta alcuni elementi divenuti poi tipici del “nuovo strano”. Non c’è dubbio che la generazione di scrittori cresciuta abbeverandosi a una quantità fin lì mai vista di medium – oltre ai libri, il cinema e i cartoni animati, le serie tv e i videogiochi, i fumetti e i giochi di ruolo –, nei quali peraltro si spaziava tra gli immaginari con una scioltezza sconosciuta a una letteratura fin troppo compartimentata (almeno nella rappresentazione che ne offriva chi la studiava), ha trovato naturale riportare nei propri testi tali influenze, senza perdersi in manichee distinzioni tra “alto” e “basso”, “colto” e “pop”. Ma non è solo questo: se la prima volta in cui si è tentato di stilare un canone strano italiano – lo ha fatto il critico Carlo Mazza Galanti per il magazine culturale Not – i nomi che sono usciti sono stati quelli di Giovanni Papini e Alberto Savinio, Tommaso Landolfi e Dino Buzzati, Anna Maria Ortese, Paolo Volponi, Guido Morselli e Giorgio Manganelli, per arrivare a Valerio Evangelisti, Michele Mari e Antonio Moresco, si capisce che difficilmente si può parlare di sottogenere, o anche solo di corrente.
Lo “strano” attraversa la nostra letteratura da sempre, allo stesso modo del fantastico (testi chiave del nostro canone maggiore sono del resto “La divina commedia” e “L’Orlando furioso”), e si rivela anzi come un suo tratto primario che, finita la sbronza di realismo del Novecento col letterale assottigliarsi delle sue possibilità di raccontare in modo plausibile una realtà sempre più complessa, ha semplicemente ritrovato il palco editoriale che gli spetta, quello delle major e delle indie di qualità.