Viva le supplenti
Da Torino a Napoli, fioriscono mostre e iniziative sociali finanziate dalle fondazioni. Mentre lo stato investe sempre meno nella cultura
“La verità è che senza Imi e Crt, cioè senza le sue due principali fondazioni, cultura e iniziative sociali in questa città sarebbero finite. I musei pubblici non hanno più risorse, e anche il tessuto sociale va impoverendosi: in pochi anni sono espatriati migliaia di giovani”, constata una collega torinese, in origine critico d’arte, ora convertita a qualunque attività le consenta di mantenersi, compreso dunque il giornalismo e la scrittura delle paline che scandiscono le visite alle grandi mostre blockbuster e che, brava divulgatrice com’è, permettono a tutti di sentirsi colti come lei per qualche minuto, uscendo dalle sale con l’autostima a mille. Al di là della battaglia sulla Tav e dello schiaffo della manifestazione del 10 novembre, la politica illogica della torreggiante sindaca Chiara Appendino (“meno code ai musei, meno file alle mense dei poveri”, annunciò in campagna elettorale, come se l’aumento delle prime non favorisse piuttosto la diminuzione delle seconde, si intende in mano a un’amministrazione intelligente) inizia infatti a mostrare i propri effetti anche sulla cultura di una città che, dopo le Olimpiadi del 2006, era rinata.
L’anagrafe degli italiani all’estero (Aire), dice che negli ultimi dieci anni il numero di italiani espatriati è aumentato di oltre il 60 per cento. Dei 50 mila ragazzi fra i 18 e i 34 anni che hanno lasciato l’Italia per studiare e lavorare, tutti, va da sé, brillanti e disinteressati al reddito di cittadinanza perché in grado di fare carriera con le proprie forze, una percentuale di poco inferiore all’8 per cento è di origine piemontese. In una cultura e in un paese che si professano europei e aperti allo scambio, questo non dovrebbe essere un motivo di troppa apprensione. In una società sulla quale, invece, alitano i fiati del sovranismo, si tagliano i fondi alla ricerca e all’università per sostenere misure assistenzialiste, e un tasso di scolarità anche minimo viene considerato espressione di arroganza (“non mi interessa dov’è il Nilo, conta conoscere i problemi della vita. Fatti un bagno di umiltà”, ha detto piccata nella casa del “Grande Fratello” ad Alessandro Cecchi Paone una tale Giulia Provvedi, come se non sapere dove e come si stia al mondo non fosse già un problema), questo numero invece, conta eccome, perché rappresenta un’indicazione di progressiva irrilevanza culturale.
In Italia operano 88 fondazioni di origine bancaria che nel 2017 hanno erogato quasi un miliardo di euro per 19.860 interventi
A Torino, che dopo i Giochi aveva vissuto lo stesso slancio ora toccato a Milano grazie all’Expo, non vengono più dedicati titoli magnificanti, numeri speciali delle testate di riferimento del turismo culturale d’élite, Wallpaper e Traveller; nemmeno si innescano più quei meravigliosi automatismi grazie ai quali anche il giornalista e l’influencer più pigro, prima di scrivere un post raccomandando una meta, vi inseriva automaticamente “la Mole antonelliana, la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e il Museo del cinema”. Di tutto questo resta il ricordo e la rabbia, elegante e trattenuta ma non meno dirompente, della piazza di sabato scorso. Torino va spegnendosi “Come una falena alla fiamma”, secondo il titolo della grande, e splendida, mostra organizzata pochi mesi fa alle Officine grandi riparazioni proprio dalla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo per raccontare la città nella sua essenza più intima, cioè attraverso opere contemporanee provenienti dalle sue raccolte più prestigiose, compresa la Fondazione Crt, affiancandole agli oggetti raccolti dai suoi grandi collezionisti nel corso degli ultimi secoli e provenienti dai musei cittadini, dal Museo egizio a Palazzo Madama. “Un generoso progetto”, lo definì Artribune, indicando nella collaborazione fra pubblico e privato la ragione ultima e unica del rilancio della città dopo la crisi industriale.
Adesso che le istituzioni pubbliche torinesi cancellano mostre già programmate e, come denunciava anche il quotidiano inglese Guardian la scorsa primavera, “gli eventi sono drasticamente calati”, le speranze vengono riposte nelle fondazioni. A dispetto di quanto credano i pentastellati, o soprattutto di quanto vogliano far credere, lo stato è infatti sempre meno presente nei gangli culturali ed educativi del paese. In un paese che, certo non solo per colpa dell’ultimo governo, figura all’ultimo posto in Europa per rapporto fra investimenti in cultura, operano invece 88 fondazioni di origine
Dal corso di lingua alla scuola
per giovani sarti: la Fondazione Isaia-Pepillo vuole valorizzare
il patrimonio culturale napoletano
bancaria che nel 2017 hanno erogato quasi un miliardo di euro per 19.860 interventi, dall’arte alla famiglia, dall’ambiente al welfare: quest’ultimo, in particolare, è stato pari a 297 milioni di euro, a cui vanno aggiunti 120 milioni destinati da 73 fondazioni ad attività educative per i minori. Quando vennero istituite come soggetti privati, non profit e autonomi fra il 1990 e il 1994, il ministro Giuliano Amato aveva visto lontano: il peso di quelle stesse pensioni di cui ora si vorrebbe facilitare l’accesso avrebbe schiacciato ogni forma di sostegno pubblico ad altre attività rilevantissime, a partire da educazione, beni culturali e ricerca. La Fondazione Golinelli, istituita dal fondatore dell’Alfasigma Marino, brillantissimo scienziato-imprenditore che ha da poco festeggiato i 98 anni, ha lanciato per esempio Opus 2065, un programma di sviluppo scientifico e tecnologico in un nuovo spazio di 9 mila metri quadrati, e ha appena lanciato la call per G-Factor, un incubatore-acceleratore per start up di scienza della vita che non vorremmo inquadrare come l’X Factor per i ragazzi che nella vita hanno ambizioni più elevate che cantare ma che non possiamo esimerci dal definire proprio così, ed è un peccato che non si trovi uno spazio e un format televisivo anche per iniziative come questa che, forse, indurrebbero più giovani ad approcciare studi scientifici invece di tentare la fortuna affidandosi all’ugola.
Forse gli italiani non se ne rendono conto, ma senza le fondazioni, comprese quelle nate dalla volontà di aziende private, gli italiani avrebbero accesso a un numero infinitamente più contenuto di occasioni di divertimento, di intrattenimento; perfino di ammirare le bellezze delle proprie città o di desiderare di cambiare casa, basti pensare all’evoluzione che una zona periferica e oggettivamente dubbia di Milano come l’ex scalo di Porta Romana sta avendo grazie alla Fondazione Prada: il recupero di quella vecchia distilleria, affidato al genio di Rem Koolhaas, e l’intensissima attività espositiva, artistica e cinematografica della Fondazione va ridisegnando l’intero quartiere, dove si lavora al recupero di vecchie abitazioni e alla costruzione di nuove, e dove hanno rinnovato spazi importanti anche gli uffici di Bottega Veneta e la storica sartoria teatrale Arrigo. Prendete per esempio le Rampe del Poggi, quell’imponente scalinata manierista che a Firenze sale da Porta San Niccolò fino a Piazzale Michelangelo, abbandonate per anni fra le vasche coperte di muschio: nessun restauro sarebbe iniziato senza la Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze, che ha stanziato quasi due milioni di euro per l’intervento, così come a Venezia la Fondation Pinault ha trasformato Punta della Dogana in un centro di irradiazione mondiale dell’arte. Intesa Sanpaolo sta riscrivendo i codici e gli scopi del restauro conservativo con il progetto Restituzioni, che permette a piccole comunità di affidare a mani competenti e sicure il recupero di oggetti altrimenti avviati all’abbandono e che ha ispirato iniziative simili ad aziende private, mentre le Gallerie d’Italia sono diventate un punto di riferimento per progetti culturali lontani dalle logiche massimizzanti che ora toccano invece alle istituzioni pubbliche entrate giocoforza nella logica del risultato economico, le famose mostre blockbuster “tutto van Gogh in cinque minuti e in immersione esperienziale”. Nessun museo pubblico potrebbe più permettersi di finanziare l’esplorazione cinetica della fotografia di Solve Sundsbo organizzata per il Vogue Photo Festival a Palazzo Reale, a Milano, sia per il costo di manutenzione del loro allestimento, sia per il richiamo relativamente contenuto di questo pur raffinato interprete della realtà (volete mettere una rasserenante mostra di cartelloni di Toulouse Lautrec). E in parallelo ben poche università, senza un finanziamento ad hoc e soprattutto senza una volontà ben precisa, potrebbero mettere al lavoro un gruppo di studiosi su una tematica come le origini della tradizione sartoriale napoletana, che pure ha importanti ricadute economiche e sociali da quasi due secoli, come sta facendo il Dipartimento di Scienze economiche e statistiche della Federico II di Napoli grazie a un programma della neonata Fondazione Enrico Isaia e Maria Pepillo, istituita dall’imprenditore della sartoria Gianluca Isaia in memoria dei nonni e presentata nei giorni scorsi al Teatro San Carlo.
Grazie alle attività della fondazione, Gianluca Isaia, napoletano convinto e veracissimo, ha istituito anche una scuola di lingua napoletana (che è lingua, non dialetto, e tutelata dall’Unesco), suscitando subito l’attenzione di Sylvain Bellenger, brillante direttore del museo e del bosco di Capodimonte (suo il progetto di restauro della Cassetta Farnese, capolavoro del Rinascimento al momento esposto alle Gallerie d’Italia che, ancora una volta, hanno contribuito al restauro), che ha messo a disposizione le sale della reggia per le lezioni. La Fondazione Enrico Isaia e Maria Pepillo, in realtà, ha già trovato uffici, a Palazzo Lancellotti, e un direttore generale, Tommaso d’Alterio, ma senza alcun dubbio, come sottolinea l’imprenditore, la proposta gli ha fatto piacere, confermandogli di aver imboccato la strada giusta.
A Milano, con il recupero
di una vecchia distilleria, l’intensa attività espositiva, cinematografica
e artistica della Fondazione Prada
“Tutte le attività della fondazione”, racconta, “saranno legate alla valorizzazione dell’immenso patrimonio culturale napoletano” che senza dubbio, verrebbe da aggiungere e ancora una volta, senza l’intervento dei privati correrebbe il rischio di andare perso, e viene subito alla mente il caso del museo Gaetano Filangieri, dato in gestione al comune e poi recuperato per scongiurarne la dissoluzione dagli eredi, che ogni anno organizzano una serie di eventi per sostenerne le attività. “Il corso di lingua napoletana – dice ancora Isaia – sarà la prima iniziativa culturale a vedere la luce, con una serie di lezioni aperte a chiunque voglia iscriversi, a partire dagli stessi napoletani, perché possano riscoprire insidie ed emozioni di questa lingua che ha dato al mondo capolavori immortali, nella musica naturalmente, ma anche nella poesia e nelle opere di prosa, distinguendosi da un mero dialetto o da un accento da imitare”.
I piani di sviluppo scientifico e tecnologico della Golinelli. Le Rampe dei Poggi a Firenze, la Punta della Dogana a Venezia
Al “paese dei sarti”, come invece è definito Casalnuovo, sede di Isaia e di molte altre realtà di rilievo nel sistema dell’abbigliamento maschile su misura, è invece riservato un altro filone di queste iniziative, una scuola “per giovani sarti che – dice Isaia – consentirà di trasmettere la grande eredità del sapere e del saper fare, di competenze speciali e indispensabili per realizzare – come lo definisce – l’inimitabile”, cioè il capo unico, espressione di bellezza e di altissimo artigianato. In una zona a rischio criminalità notoriamente e purtroppo elevata come la provincia di Napoli, questa iniziativa vuole “rappresentare una possibilità di riscatto”, specifica Isaia, “permettendo di creare nuove opportunità di lavoro e tutelando nel contempo il patrimonio di conoscenza delle storiche maestranze che oggi rischiano di scomparire”. E infatti, in quell’ottica di collaborazione con il pubblico che si verifica nei casi migliori di questo sistema a trazione e denari privati, ai costi di iscrizione alla scuola contribuiranno fondi del comune: vi si potrà accedere attraverso la partecipazione a un iter codificato di selezione.
L’ascensore sociale non si innesca con i redditi di cittadinanza, ma con una formazione migliore e garantita a tutti, soprattutto a chi vive in contesti disagiati: è quanto sta facendo, di nuovo, la Fondazione Cr Firenze con Intesa fra gli studenti in difficoltà delle scuole secondarie di Firenze, Arezzo e Grosseto e con l’università di Firenze, attivando convenzioni per attività culturali e sportive a scuole meritevoli ed erogando bonus singoli al merito. Il concetto più lontano che si possa immaginare dalle politiche cinquestelle, quello più confortante per molti.