Due buoni motivi per perdersi nell'eccentrica Vienna il prossimo inverno
Da Bruegel il Vecchio alle stravaganze di Wes Anderson
Vienna non ha bisogno di motivi speciali per voler essere visitata. Vedova per sempre dell’ultimo grande impero, ha saputo coltivarne il lascito con velata e fascinosa malinconia. Maestosa in fatto di arti performative, luogo in cui la musica ancora si insegna come materia obbligatoria (una società composta da gente che sappia leggere e scrivere musica non può commettere grandi errori), Vienna rappresenta un certo modo di stare al mondo, classico quindi non retrò, solenne ma non snob, dove ci si perde ancora a discutere animatamente fino a mattina di questioni alle quali i nostri smartphone non possono dare risposta. Forse è per questo che si fuma ancora nei bar e ci si saluta con un enfatico Grüß Gott! Capitale di uno stato efficiente e ben organizzato in cui, diversamente dalla Germania, si lascia spazio all’eccentricità, dove ci si sente a proprio agio all’interno dei propri confini e si beve vino anziché birra. Malgrado sia stata un crocevia strategico-culturale unico (l’austerità nordica mista al cattolicesimo, la capitale più a est dell’occidente, ma anche viceversa), luogo ideale per firmare trattati e inviare spie, Vienna rimane una destinazione. Non ci si passa per Vienna, ci si va prima o poi. Se non bisogna quindi ricorrere a motivi speciali per visitarla, ne abbiamo non uno ma due utili per quest’inverno, per non rischiare la procrastinazione delle buone intenzioni.
Il Kunsthistoriches Museum è un luogo unico. Custode di una collezione senza eguali, il museo è una sorta di macchina del tempo le cui facciate richiamano lo stile rinascimentale italiano e gli interni sono decorati con marmi, affreschi, copiosi ornamenti di stucco e oro. Entrarvi significa immergersi nella maestosità dell’epoca asburgica e osservando il meglio dell’arte figurativa fino all’800 (tutto ma niente opere dalla nemica Francia) si capisce un po’ meglio cosa oggi si intende quando si parla di Europa.
Si è da poco inaugurata la mostra di Pieter Bruegel il Vecchio, descritta non senza enfasi come “evento unico, irripetibile” (“Bruegel-The hand of the master”, Kunsthistorisches Museum, fino al 13 gennaio 2019). Effettivamente è la prima volta che un museo riesce a organizzare una mostra dell’artista fiammingo che, morto giovane, lavorò per soli 18 anni realizzando non più di 40 dipinti. Il Kunsthistoriches ne possiede 12 (nessun altro ne ha più di 3) rendendolo di fatto l’unico museo in grado di organizzare una mostra simile. Osservare questi maestosi pannelli di legno significa abbandonarsi a una descrizione poetica ma pur sempre lucida e minuziosa degli usi e costumi della società del Cinquecento, essendo stato Bruegel il Vecchio il primo a raccontare attraverso la pittura il banale e l’ordinario, come il rientro da una battuta di caccia, un matrimonio contadino, o i giochi in piazza dei bambini. Gli episodi religiosi, essenziali per ricevere commissioni, divengono eventi sussidiari degli eventi che li circondano, in uno stile che guarda a Roma e Venezia ma iscritto in un’epica biblica tipica dei paesi protestanti. Le due versioni della torre di Babele sono riunite per la prima volta dopo 450 anni. Un summit europeo in questa stanza basterebbe, forse, per aprire le coscienze e dissipare irresponsabili scetticismi. La mostra è impegnativa (99 opere tra dipinti, disegni e oggetti), probabilmente troppo estesa al di là dei dipinti (causa mancanza di un curatore accanto ad accademici e storici dell’arte), ma quale lusso averne abbastanza di un artista così enigmatico, atipico e ricercato come Bruegel.
Da una retrospettiva irripetibile, che raduna tutto il possibile intorno a una singola figura, si scende al piano inferiore per un esercizio inverso di distillazione di questa eccezionale collezione che copre cinquemila anni di storia (“Spitzmaus Mummy in a Coffin and Other Treasures from the Kunsthistorisches Museum”, Kunsthistorisches Museum, fino al 28 aprile 2019). Si possono trovare oggetti di ogni tipo che la famiglia imperiale fece portare da ogni angolo del mondo, come mummie egizie, antichità greco-romane, corone di diamanti, oggetti etnografici, costumi e carrozze. Tutto o quasi, inclusi oggetti carichi di tanta opulenza da essere sublimemente volgari. In un’epoca di dittatura curatoriale, dove non è tanto in discussione l’accesso al sapere quanto la sua organizzazione, il brillante curatore Jasper Sharp ha pensato di proporre qualcosa che il museo mai aveva fatto finora: mescolare le carte e presentare in una sala centrale un arrangiamento inedito per poter osservare questo scibile umano con occhi meno reverenti nei confronti della storia. Trovandoci nel Museo della storia dell’arte è chiaro che si tratta di un’operazione iconoclastica ad alto rischio. Il regista Wes Anderson insieme a sua moglie, l’illustratrice e scrittrice Juman Malouf, sono stati invitati in qualità di curatori per selezionare dalla collezione secondo criteri propri, sicuramente non accademici e poco convenzionali. Ci sono voluti più di due anni di lavoro, il che non sorprende considerando la metodologia lavorativa di Anderson che ha sempre fatto dell’ossessione la sua cifra distintiva.
Ma a cosa assomiglia una mostra d’arte organizzata da Wes Anderson? Fedele ai suoi impulsi e geloso delle sue idiosincrasie, è una presentazione stravagante di ciò che è normalmente nell’ombra o che abbiamo probabilmente soprasseduto in passato. Organizzata in quattordici gruppi che infrangono tutte le regole storico-artistiche, la selezione livella le categorie gerarchiche tradizionali: un omaggio agli oggetti trascurati, incompleti o anonimi, quattrocentocinquanta scelti tra i quattro milioni e mezzo di pezzi in collezione. L’impresa titanica deve avere affascinato regista e consorte che hanno conferito alla selezione un carattere fortemente personale che va dal compulsivo al curioso, passando per la ricerca della narrazione tra oggetti che diventano personaggi, o la loro catalogazione in base al colore verde o alla loro dimensione. Ogni scelta ostentatamente banale celava l’insidia della sofisticazione. La nostra selezione preferita è stata quella di ritratti di persone che guardano a sinistra.
La quarta vetrina presenta una fila di ventidue busti in miniatura che abbracciano stili e secoli, organizzati non per cronologia o contesto, ma per dimensione, posti accanto ad arti spezzati di sculture anonime, come un dito in bronzo di epoca romana. La mostra non prevede ingombranti didascalie (sostituite da un libretto), e lascia così lo spettatore libero di sbagliare o di perdersi in una propria favola, come devono aver fatto Anderson e Malouf.
Le classiche metodologie attraverso le quali si racconta la storia dell’arte sono orgogliosamente superate. Procedendo per tentativi ed errori, vengono presentati gli effetti di un processo mentale che segue un personalissimo algoritmo, non despotico che indica cosa è giusto o sbagliato, ma che si rimette alle fluttuanti proprietà del sensibile. Funziona. La scelta dei curatori stupisce gli addetti ai lavori, affascinandoli, e comunque attrae il grande pubblico attraverso il fantastico e il triviale, liberandolo dalla dittatura dello sguardo unico. La mostra verrà presentata l’anno prossimo presso la sempre stimolante Fondazione Prada, co-organizzatrice di questo eccezionale viaggio nella storia della creazione umana. Appuntamento da non perdere a Milano ma che non sia questa una scusa per non andare a Vienna.