La rivoluzione di Susanna Tamaro
“Sono passata come la regina del buonismo, ma io il male lo conosco come la cucina di casa mia. Il male vero, non quello estetico con cui si baloccano molti scrittori”
Susanna Tamaro ha compiuto sessantun anni, vive per la maggior parte del tempo in campagna, in una grande casa piena di cani, gatti, con una famiglia adottiva sudamericana numerosa e allegra. Insegna arti marziali in una piccola palestra, va in bicicletta o in motorino. “Nessuna delle persone che vivono con me ha mai letto i miei libri, a parte Roberta a cui devo tutto: senza di lei non sarei mai riuscita a scrivere, né a vivere. Viviamo insieme da trent’anni ma mi sembra ieri che ci siamo conosciute. Ogni mattina siamo felici di vederci”.
Davvero pensi che non saresti riuscita a scrivere? “Per tirare fuori quello che avevo dentro avevo bisogno di qualcuno che mi volesse bene: io avevo raggiunto il grado zero dell’umanità, partivo da una vita di rifiuto. E poi con la sindrome neurologica che allora non sapevo di avere ero praticamente paralizzata. Roberta mi ha aiutato in tutto: nelle cose della vita quotidiana e soprattutto nel rapporto con il mondo. E’ stata la mia editor e la mia salvezza pratica. Anche solo l’idea di prendere un treno da sola e cambiare alla stazione di Bologna, prendere le scale mobili, mi paralizza. La stazione di Bologna è per me invalicabile”.
Susanna Tamaro ha scritto romanzi, saggi, libri per bambini, ha raccontato la famiglia triestina da cui proviene, la stessa di Italo Svevo
Il successo di “Va’ dove ti porta il cuore” è stato “uno choc pazzesco. Tutti volevano fare copertine e programmi tv. Vivevo nel terrore”
In trent’anni di carriera, Susanna Tamaro ha scritto venticinque libri, romanzi, saggi, libri per bambini, ha raccontato la famiglia triestina da cui proviene, che è la stessa di Italo Svevo, e ha compiuto una rivoluzione editoriale nel 1994 con Va’ dove ti porta il cuore, che ha venduto nel mondo sedici milioni di copie. Lei aveva trentasette anni, viveva a Roma in una casa minuscola da studente, non aveva un soldo, aveva l’Asperger ma non sapeva di averlo. Il libro era uscito a gennaio con Baldini&Castoldi, senza clamore. Ma già a partire dalla prima e unica presentazione al castello di Poppi, vicino ad Arezzo, un mese dopo, tre o quattro signore le parlarono del libro con grande passione e Susanna per la prima volta pensò: “Che bello!”. Dopo l’estate, e dopo un’apparizione al “Maurizio Costanzo Show” e ad “Harem”, condotto da Catherine Spaak, il libro aveva venduto già centinaia di migliaia di copie che raggiunsero il primo milione a dicembre di quell’anno.
“C’era un certo paternalistico pat pat nei miei confronti. Il pensiero era: un libro per segretarie. Con il successo è diventato disprezzo”
Era quasi venticinque anni fa. Un romanzo famigliare, scritto da una giovane donna schiva, che racconta la storia di Olga, un’anziana donna triestina che attraversa la Seconda guerra mondiale, e che diventa un bestseller tradotto in tutto il mondo. “Per me è stato terribile – dice adesso Susanna Tamaro, seduta sul divano di una piccolissima casa di Trastevere dove vive quando viene a Roma – uno choc pazzesco. Tutti volevano interviste, volevano fare le copertine, programmi televisivi. Io vivevo nel terrore e non sapevo come comportarmi, non conoscevo le dinamiche mondane e, avendo l’Asperger, ancora meno sapevo gestirle. Non sapevo cosa potevo fare, cosa potevo dire, cosa non dovevo dire. C’era un certo paternalistico pat pat nei miei confronti. Il pensiero era: un libro per segretarie. Poi, man mano che il successo del libro cresceva, il pat pat diventava disprezzo. Dicevano: Che ci vuole a scrivere un libro così? L’ha scritto con un programma del computer, l’ha scritto a tavolino. Io rispondevo: certo che l’ho scritto a tavolino, scrivo su un tavolino! Giornaliste che mi chiedevano chi erano i miei amanti, che mi dicevano: ma che brutte scarpe ha, ma che schifo di casa, che mi dicevano: sei felice adesso che puoi andare a cena con i politici? L’orrore. Poi però c’era il postino che arrivava con un trolley di posta solo per me, da tutto il mondo. Per anni e anni ho risposto a migliaia di lettere che mi hanno restituito anche un quadro del paese, dell’Italia in generale, straordinario. Ancora a volte, quando viaggio in treno dico: ‘Ah, qui c’è il paese di quel pensionato che mi ha parlato della pesca…’. Ho una memoria assurda, mi ricordo tutto. C’è una signora di Varese che mi mandava ogni anno un mazzolino di lavanda. Ho avuto una corrispondenza di molti anni con persone che magari avevano fatto solo le scuole elementari. E’ un libro che non ha intimorito i nuovi lettori, anzi ha dato a ognuno quello che poteva prendere. C’era la vecchia contadina che scriveva ‘à’ in vece di ‘ha’, quasi tutte le lettere erano scritte a mano, dalla calligrafia capivo l’età delle persone. Un signore mi ha telefonato da parte di sua moglie. Prima di morire gli aveva detto: ringrazia la scrittrice, perché grazie al mio libro aveva potuto riappacificarsi con sua madre… Dal punto di vista umano è stata un’avventura meravigliosa. Meravigliosa”.
Il mondo intellettuale però è stato feroce con Susanna Tamaro.
“Sono una donna. Chiaramente, fossi stata un uomo non sarebbe stata la stessa cosa, su questo non ho proprio alcun dubbio. In più, non sono una donna proprio classica, quel modello che piace immaginare agli uomini, non sono una seducibile. Questo ha fatto molto. E non avevo un editore potente, potevano sparare quanto volevano, non avevo nemmeno studi accademici alle spalle, ero una totale autodidatta. E poi c’era il grande tabù del cuore. Avevo osato mettere la parola ‘cuore’ nel titolo”.
Questo tabù del cuore non esiste più, forse sei stata tu a romperlo.
“Il mio però è un libro estremamente razionale, faccio un un’analisi spietata dell’animo umano, dei rapporti. Adesso, si elogiano delle opere superficiali. Ormai viene esaltata soltanto l’emotività, l’intelligenza del cuore non c’è più. Il cuore considerato nella sua totalità spirituale, naturalmente”.
Susanna Tamaro ha una vera ferita. Se le chiedo di parlarmi di quegli anni, gli anni del successo frastornante, gli anni in cui ha smesso di essere povera, gli anni di Va’ dove ti porta il cuore e Anima mundi, ancora si spaventa. Hanno detto di lei che era pagata da Berlusconi (perché Berlusconi era entrato in politica nel 1994), le hanno detto che era reazionaria, fascista, buonista, nazista, trash, hanno annunciato al telegiornale il suo suicidio.
“Adesso sono consapevole di aver subito un linciaggio, sul momento non capivo. Mi hanno tolto per sempre la gioia di scrivere. Accendevo la radio e c’era un giornalista che parlava malissimo di me, aprivo un giornale e mi insultavano. Era una vera persecuzione. Uscivo qui a Roma e mi facevano il saluto nazista, dicevano: ‘Noi siamo compagni’. Entravo in una libreria e la gente sbatteva la porta per non stare nella stesso locale con me. Dodici anni fa ho avuto un incidente con la bicicletta, sono stata investita da una macchina mentre ero in vacanza al mare. Mi hanno portato con l’ambulanza in ospedale, codice rosso. Stavo sul tavolo operatorio e il chirurgo mi fa: ‘Qui siamo tutti comunisti!’. Perché dici a un paziente: ‘Io sono comunista’? Perché pensi di star operando un fascista”.
Fascista, cattolica integralista. E tutto questo, perché?
“Cattolica integralista perché perché in Anima mundi ho messo alla fine il personaggio di una suora. Se avessi messo le stesse parole in bocca a un monaco buddhista avrei avuto di sicuro più approvazione. Fascista perché ho osato dire che c’erano stati i gulag. Allora era ancora un tabù ammetterlo. Io sono cresciuta sul confine con la Jugoslavia. Il comunismo l’ho sperimentato dal vivo fin da quando ero bambina: andavamo a fare la spesa al di là del confine, avevo tanti amici in Croazia, in Jugoslavia, quando ero adolescente. Conoscevo bene la tragedia di tanti italiani idealisti che sono andati in Jugoslavia per costruire il comunismo e che, quando Tito si è separato dalla Russia, sono stati ammazzati. E’ stata una tragedia dostoevskijana spaventosa. Ho voluto parlarne nel mio libro e sono diventata di colpo fascista. Ricordo una volta un convegno di scrittori dell’Est Europa in cui ero stata invitata, era l’ultimo anno prima della caduta del comunismo. Eravamo ospitati in una grotta, come per sottolineare che gli scrittori dell’Est vivevano nascosti. C’era una delegata dell’Ungheria, parlavano sottovoce, si guardavano sempre intorno, terrorizzati di quello che veniva detto. Il comunismo era prima di ogni altra cosa un regime di delatori. Comunque il ‘fascista’ è rimasto, anche se mi sono un po’ riscattata negli anni. Comunque è rimasto”.
Susanna Tamaro parla con grande amarezza, un’amarezza viva e palpitante, di un periodo che è stato di grande, straordinario, forse irripetibile successo.
“Per me è stato molto duro, veramente molto duro sopravvivere. Io non so come non ne sono morta”.
Ma perché non ti sei goduta l’amore dei lettori, le vendite pazzesche?
“Se hai avuto una vita felice, o una vita normale, va bene, chi se ne frega. Sei forte. Ma se tu avessi avuto il mio passato di abbandono, una cosa così ti uccide, non ce la fai a sopportarla. E’ tutta la vita che vengo trattata malissimo. Da piccola, da grande. Non è facile salire sul treno e vedere gente che esce dallo scompartimento per non contaminarsi. Insomma, vedi anche tu che persona sono: studio gli insetti, allevo le api, curo gli animali, parlo con i bambini, pianto alberi, aggiusto biciclette… E’ stata fatta in quegli anni una campagna capillare di disprezzo, di derisione nei miei confronti. Quando è morto mio padre, ad esempio, hanno dato la notizia su tutti i telegiornali. ‘Trovato uomo nudo morto a casa della scrittrice’. Era mio padre, che è morto a casa sua, a Roma. Io ero in campagna, sono andata a fare il riconoscimento e c’erano già le televisioni ad aspettarmi. Lui era alcolizzato da sempre. Si è sentito male la mattina, aveva un’emorragia interna, è andato al bagno e così è morto. Ma al telegiornale hanno parlato di presunto omicidio, di un’orgia finita male”.
“E’ tutta la vita che vengo trattata malissimo. Da piccola, da grande… Uscivo qui a Roma e mi facevano il saluto nazista”
Susanna Tamaro è una persona allegra, gentile, dolce, vuole sapere tutto del mio cane, dei miei bambini, vuole sapere come ho fatto da Bologna a cambiare treno per Ferrara e a non morire (anche a me viene l’ansia), racconta la propria vita senza filtri, senza malizia, con entusiasmo e un po’ di risentimento, ma è ferita. L’ultimo libro, Il tuo sorriso illumina il mondo, uscito per Solferino, è una lunga bellissima lettera al grande amico poeta Pierluigi Cappello, morto nel 2017 per una terribile malattia. Si sono presi cura l’uno dell’altra, dell’amore per la natura, il cielo, gli animali, la vita. E in questo libro Susanna Tamaro ha parlato di sé, e del suo dolore, parlando a lui che non c’è più. Ha raccontato di un’infanzia terribile, e ha raccontato il male. La cattiveria pura e assoluta degli esseri umani verso gli altri esseri umani.
“Sono passata come la regina del buonismo, ma io parlo sempre del male. Il male lo conosco come la cucina di casa mia. Parlo del male vero, non il male estetico con cui si baloccano molti scrittori che giocano con la distopia e poi vanno a mangiare gli gnocchi a casa di mamma”.
Tu hai sofferto per la tua sindrome, che non è stata riconosciuta fino ai tuoi cinquantotto anni, e per il difficile equilibrio della tua famiglia.
“Ai miei tempi, sono nata nel 1957, non si conosceva questo problema. Esistevano solo bambini obbedienti e disobbedienti, non c’erano altre categorie. Il mio sogno era di essere obbediente, io non volevo dar fastidio a nessuno, neanche ai miei due fratelli maschi. Volevo essere la più amata, la più obbediente, ma avendo questo nemico nella testa che nessuno riusciva a mettere a fuoco, io per prima, non mi comportavo da bambina obbediente. Avevo grandi attacchi di rabbia per la strada, mi spaventavano i rumori, la folla, gli avvenimenti inaspettati. In più non comunicavo con l’esterno, stavo per morire di peritonite perché non avevo detto che mi faceva male la pancia. Ho sempre sofferto tanto. Forse mi sarebbe bastato avere una maestra che mi avesse capito, alle elementari. Ma la maestra aveva altri trenta bambini, dunque si tirava avanti, così. D’altra parte ho pensato che questo distacco totale da tutto mi ha anche preservato dal disordine dei miei genitori, dalla loro follia”.
Nel libro racconti che tuo padre non aveva intenzione di fare il padre, ma tua madre?
“Mia madre non aveva molto istinto materno. Però io la adoravo, l’ho adorata. E’ morta giovane. Non ha avuto una vita facile, è stata abbandonata dal primo marito con tre figli, e una di questi era problematica. Ha cercato di ristrutturare la sua vita dopo l’abbandono di mio padre, ha avuto altri due mariti, di cui il secondo era uno psicopatico. Lei pensava che uno così disturbato non l’avrebbe mai lasciata. Lui l’aveva completamente irretita e l’aveva plagiata al punto che lei pensava di vivere con un genio, e che dunque da un genio potesse venire tutto, perché il genio doveva soffrire. Lui ci aveva isolati, da Trieste eravamo andati a vivere a Udine, più lontani quindi dai miei nonni”. Una ragazzina infelice, solitaria, totalmente incompresa, che a quindici anni, quindi nei primi anni Settanta, viene spedita in una casa famiglia, perché i Servizi sociali avevano deciso che non era più il caso di dormire a casa di sua madre. “Andavo a scuola, poi tornavo nella casa famiglia, dove vivevo in compagnia di borderline miei pari”.
E’ il racconto di una vita durissima. E’ questo che intende Susanna Tamaro quando dice: “Il male lo conosco come la cucina di casa mia”. Ma poi, a diciott’anni, qualcosa è cambiato. “Ho vinto una borsa di studio per andare a Roma a studiare da regista. Ero molto meravigliata di aver superato l’esame di ammissione, data la scarsa stima che avevo di me stessa. Ho avuto anche molta paura. Quando mi è stato detto che avevo vinto il concorso e dovevo andare a Roma, non volevo più andarci. Ma mia nonna, con la quale a quel tempo vivevo, mi ha detto: ‘Tu ci vai, e non si discute’. E ha avuto ragione. Quei primi anni a Roma sono stati gli anni di una liberazione enorme. Ero una giovane promettente regista, all’improvviso tutti mi ascoltavano, parlavo con tutti, io che per tutta l’infanzia ero quasi affetta da mutismo. Erano anni di grande fervore culturale, si andava sempre al cinema, si discuteva: mi sentivo finalmente piena di possibilità”.
La vita di Susanna Tamaro a quel punto è decollata, e lei si è costruita un mondo nuovo. “Ho ricostruito la vita a partire da zero, non avevo altra possibilità. Dovevo andare avanti. Nei rapporti umani e nella mia vocazione di scrittrice. In tutti quegli anni di mutismo e di infelicità in cui avevo soltanto guardato, fotografato con la mente, è come se avessi accumulato un universo di parole. Elaboravo tutto internamente. E quando ho iniziato a scrivere ho proseguito un discorso interiore che avevo iniziato nel lungo certosino silenzio della mia infanzia”.
Hai incontrato la tua vocazione e hai sostituito alla solitudine molti e forti legami elettivi, questo sarebbe il grande lieto fine di una grande storia triste.
“Da quando ho la casa in campagna, ho accolto, oltre alla famiglia peruviana con cui vivo da vent’anni, molte persone, per periodi più o meno lunghi. Non avendo una famiglia tradizionale, mi piace condividere la vita con altri. Chiudersi non è mai una buona cosa. Confrontarsi con altre persone, che vengono da paesi molto lontani, è una buona palestra per rimanere elastici, interiormente, per metterti in gioco”.
Chiedo a Susanna Tamaro se sua madre abbia fatto in tempo a essere fiera di lei, se c’è stato mai un chiarimento, se c’è stato il lieto fine. “Lei ha letto Va’ dove ti porta il cuore, ma non mi ha detto cosa ne ha pensato. Leggeva molto, per tutta la mia infanzia mi ha ossessionato con Proust. A un certo punto ha cominciato a dire a tutti, al fruttivendolo, alle persone in autobus, che era la madre di Susanna Tamaro. Quindi forse era fiera, sì. E’ morta relativamente giovane per questi tempi, a poco più di settant’anni, ma gli ultimi anni sono stati belli. Era sollevata che potessi occuparmi dei suoi debiti, era felice di non avere più ansie economiche, e poi veniva con noi in campeggio. Abbiamo fatto dei piccoli viaggi in Italia con il mio furgone verde pistacchio, io lo chiamo Ramarro. Era contentissima, ci siamo divertite. E credo che lei sia stata molto grata che io non le abbia mai parlato del passato. L’ho perdonata e basta, volevo avere anche qualche bel ricordo di mia madre. Abbiamo vissuto questa parentesi di allegria, di viaggi, di risate. Prima di morire mi ha regalato una scatoletta, che ho ancora. Dentro c’è scritto: Ti voglio bene anche se non ti ho mai capita”.
Non ti capiva a causa della sindrome di Asperger, che non sapeva che tu avessi. “Ho parlato con diverse madri che hanno bambini Asperger in questi mesi. Quando finalmente ho capito cos’era il nemico che avevo dentro, per me è stata come una liberazione. Adesso so contro chi lottare, so quello che posso o non posso fare. So gestire la mia vita. Ma soprattutto ho saputo comprendere le frustrazioni di mia madre, il suo non saper cosa fare con me, perché comunque non capiva, non sapeva come trattarmi. Tutte le madri con cui ho parlato, madri amorose, mi dicono che non sanno cosa fare. Ricordo ancora l’espressione smarrita, di impotenza e di ansia in ospedale, quando ero stata operata di peritonite, a due anni e mezzo, tre anni. Mi guardava e non sapeva cosa fare. Non è facile avere un figlio con cui non riesci a comunicare, e che non è affettivo… Non perché non volessi essere affettiva, ma appunto, non ero in grado di comunicare. Adoravo mia madre, ma non avevo le capacità di trasmetterle il mio amore. Povera mamma”. La vita quindi è anche questo. Perdonarsi.
“Non riesco però a perdonare che mi abbiano tolto la gioia di scrivere, che non mi abbiano mai chiesto scusa. Come posso perdonare di essere stata trattata, guardata, disprezzata in modo così grave? Perché sono una donna, e quindi merito il disprezzo culturale. Avrei potuto difendermi solo con un cazzottone. Ho trentadue anni di arti marziali alle spalle, avrei potuto farlo”. Non l’ha mai fatto, perché è una donna.