L'Hotel dei Filosofi
L’irrompere della realtà tra i più grandi pensatori della storia. Alle prese con un giallo
"La vida es un sueño a través del cual nos corremos, despertar es morir”. La lettura di “Strani delitti all’Hotel dei Filosofi” di Giuseppe Feyles mi evoca questa frase memorizzata al liceo da quando la pronunciò il supplente di francese. Pensavo fosse di Calderon ma non trovo la citazione. Però funziona. La vita è un sogno attraverso il quale noi corriamo, svegliarsi è morire. O forse svegliarsi è solo la morte del sogno. O, meglio, il sogno è più che sogno: è condizione della sveglia, del vivere.
Feyles è personaggio poliedrico. Fa tv da 35 anni, consulente di Mediaset, già direttore di Retequattro, scrive saggi e tiene corsi di comunicazione in vari atenei. Prima di tutto ciò studiò e insegnò filosofia. Questo suo libro, appena edito da Manni, è evidentemente un divertissement senza pretese letterarie – riconosciutegli invece da Giorgio Barberi Squarotti per i suoi racconti brevi La classe scomparsa – e in virtù di quest’origine ludica è un ottimo sussidio per l’insegnamento della filosofia nei licei, un giallo da affiancare al libro di testo.
Chi sa di filosofia non sempre la sa spiegare, ed è esperienza di ogni professore, chi scrive l’ha fatto solo per un anno, l’andare a sbattere contro la più filosofica, quanto incosciente di esserlo, delle domande: “Professore, a cosa serve la filosofia?”. Le spiegazioni sono di solito più teoriche delle teorie di cui si vuole rendere contro. Feyles la prende in un altro modo: racconta una storia. Chi capisce sa raccontare e inventare, chi non capisce ripete. Chi inventa sa ripetere e citare senza essere didascalico. Feyles costruisce un giallo in cui cita molto, e a proposito, rasentando la didascalia senza mai cascarci. Il giallo mostra che la filosofia serve a scoprire l’assassino e l’indagine a capire la filosofia.
L’Hotel dei Filosofi è un luogo indefinito e ambiguo, evidentemente collocato nell’eterno ma in contatto con il mondo, illuminato da candele, ma nel quale irrompono pulmini, treni e pistole Beretta. Ci vivono 24 filosofi, un cameriere, una donna di servizio, un cane e un cuoco (l’io narrante). In questo luogo in cui circolano solo idee, in cui il pensiero si pensa eterno, in cui Platone e Aristotele si astraggono da tutto immergendosi in infinite partite a scacchi, irrompe d’improvviso la realtà. Succede un fatto, il più inevitabile, la morte. Violenta: l’omicidio di Parmenide. L’assassinio dell’Essere.
L’equilibrio di un mondo irreale, nel quale ognuno può continuare a pensarla come crede, salta e inizia la ricerca dell’omicida, “un fatto pratico come le patate” direbbe Chesterton, cioè una ricerca filosofica.
Per capirla la filosofia va messa alla prova: sapranno i filosofi fare giustizia? Ed è qui che Feyles spezza il pane ai poveri, seguendo Hegel nell’impostazione dialettica dell’indagine, Cartesio nella ricerca del movente, Kant nella ricostruzione a priori della possibilità di ognuno di essere l’assassino, Hume nelle perquisizioni per trovare l’arma del delitto, Pascal nelle intuizioni più veloci dell’analisi, Hobbes nella diffidenza verso tutti, Rousseau nel suo proto-comunismo.
A un certo punto diventa chiaro a tutti, anche al lettore, che “la filosofia deve cominciare a confondere le idee, per indurre alla riflessione”. E l’inquietudine dello studente non passerà, ma inizierà a trovare ragione del suo esserci. Nel bel mezzo dell’indagine, a complicare la linearità in cui ognuno di noi, come i filosofi, vorrebbe cullarsi, sopraggiunge anche un depistaggio con tentativo di colpo di stato e un tentativo (indovinate di chi?) di addossare la colpa alla vittima: “Che cosa può aver fatto quella notte, o subito prima, per far scattare la mano omicida?”. Che è un modo raffinato e filosofico per dire che Parmenide se l’è cercata. Dove non si sa se questa sia la traduzione volgare e popolaresca di una posizione filosofica o se la teoria dell’inerzia sia il tentativo di nobilitare a livello del pensiero l’eruzione di un brutale senso comune. Il dubbio insorge anche quando il cameriere esplode in un “Non c’è due senza tre!”. “Era il suo modo grossolano di intendere la dialettica hegeliana”, come suggerisce Feyles, o è Hegel che si è ispirato alla saggezza popolare? Astuzia della ragione o ironia della sorte?
“Strani delitti” è attraversato da una latente ironia, resa esplicita nell’esergo pascaliano: “Se moquer de la philosophie c’est vraiment philosopher”. La vera filosofia è burlarsi della filosofia. In queste 311 pagine Hegel, in effetti, sembra uno che si prende troppo sul serio. Il d’Aquino, invece, viene beccato mentre ruba il formaggio e lo nasconde sotto la tonaca.