Un'eterna Cassandra
Dalla pittura al disegno, dai video al teatro sperimentale: l’arte totale dell’indiana Nalini Malani contro la violenza. Una visione mitica che mette le ombre in primo piano. Al Castello di Rivoli
Essere vivi significa vivere in un mondo che esisteva prima del nostro arrivo e che sopravvivrà alla nostra scomparsa”. Le parole della filosofa e storica Hannah Arendt sono molto amate dall’artista indiana Nalini Malani. Ne ha fatto tesoro sin dagli inizi della sua carriera e le ha applicate ai suoi lavori, espressioni diverse come lo è stata la sua vita, momenti grazie ai quali è riuscita a scoprire sé stessa e a trasmettere – da cinquant’anni – il suo pensiero forte, femminista, diretto, provocatorio e mai banale in opere che spaziano dal figurativo all’astratto, da installazioni video a dipinti e fotografie. “Il pensiero è la sostanza principale, l’educazione è un potere”, ci spiega quando la incontriamo a Rivoli, mezz’ora d’auto dal centro di Torino. “Sono interessata a difendere l’arte che è comunicazione, ma non credo nell’arte per avere delle risposte”. “Mi piace molto Instagram – continua – e nel mio profilo posto spesso video che realizzo con l’iPad (la moda del momento, basta vedere ciò che fanno l’artista David Hockney o lo stilista Valentino, ndr), ma la tecnologia non è importante se non per estendere il pensiero del pubblico, l’unico ad avere importanza”.
Nata a Karachi nel 1946, Nalini Malani ha conosciuto un mondo in crisi tormentato dalle conseguenze del colonialismo, delle guerre mondiali e dei loro postumi. Quando le parli, ti fissa negli occhi che sono scuri come l’abito che indossa, l’opposto della memoria di quello che è stato e ha vissuto. Quando risponde, continua a fissarti, ma sono le sue parole – testimoni evidenti di una cultura profonda – a ipnotizzarti e a conquistarti. “Mio padre – racconta – lavorava per Air India e questo mi permise di viaggiare periodicamente in Europa e non solo. Dopo la laurea in arte a Mumbay, mi trasferii a Parigi dove conobbi e studiai Louis Pierre Althusser, Roland Barthes e Noam Chomsky”. Nel 1937, però, tornò nel suo paese, “un vero e proprio atto politico”, un rifiuto deliberato della vita diasporica dell’occidente a vantaggio del progetto di modernizzazione ed emancipazione di un’India contemporanea, laica, avanzata e intellettuale. Il Castello di Rivoli la celebra fino al 6 gennaio prossimo con una grande retrospettiva, “Nalini Malani: The Rebellion of the Dead” (La rivolta dei morti), seconda parte autonoma dopo una prima ospitata al Centre Pompidou di Parigi, un percorso volutamente crudo e diretto che con un linguaggio personale affronta la violenza dei nostri tempi e l’ingiustizia globale.
Un percorso volutamente crudo e diretto che con un linguaggio personale affronta la violenza dei nostri tempi e l’ingiustizia globale
Le donne segnano in maniera indelebile la sua memoria artistica sin dagli esordi. “E’ fondamentale – dice – far rivivere i miti antichi”
Ad accogliervi, troverete Dream House, un film muto 8 mm in stop-motion a pellicola rovesciata, uno degli esempi di quella presa di posizione, un rimando all’utopico sogno socialista e democratico degli anni Sessanta vissuto in India con Nehru, “secondo il quale – spiega l’artista al Foglio – avremmo avuto nuove forme di ingegneria e architettura costruendo una società con case popolari per tutti, ma che in realtà, alla fine, portò solo a un declino devastante per troppe persone”.
Con City of Desires-Global Parasites, invece, grande disegno a muro che sarà poi cancellato a fine mostra, vuole far notare che le cose sono sì migliorate da un punto di vista tecnologico, “ma c’è stata un’erosione della cultura, dell’ordine sociale e delle condizioni di sostenibilità esistenti”. Un dialogo continuo, il suo, tra il vivente e il fantasmatico iniziato nel 1991 proprio con questi disegni a carboncino dalla vita breve, simbolo della fragilità di qualunque immagine e della vita stessa, oltre che della perdita e della futilità di qualunque sforzo umano, compreso il fare arte.
“Nella sua arte ci sono una fluidità e una corporalità che, attraverso la metamorfosi e il cambiamento, le consentono di rifuggire dalla limitazione di una tecnica, di un materiale o di uno stile specifico”, ci spiega Carolyn Christov-Bakargiev, nostra guida speciale per una sera, “una poverista” – come ama definirsi, già autrice di vari testi sull’argomento pubblicati da Phaidon Press e oggi direttrice del Castello di Rivoli, casa madre dell’arte povera. Non è un caso, quindi, che l’arte di Malani spazi dalla pittura al disegno, dalla fotografia sperimentale al film in 16 mm e 8 mm negli anni Sessanta e Ottanta, dai grandi dipinti del corpo femminile delle serie Mutant A e Mutant B negli anni Novanta al teatro sperimentale e alle video installazioni realizzate agli inizi del 2000. Tra queste ultime, il video multicanale Mother India: Transactions in the Construction of Pain (2005), che è un lavoro con cui ha introdotto la video art in India e che nasce dalla ciclica operazione della violenza sulle donne durante la Partizione del 1947 e il genocidio del Gujarat del 2002. Malani, continua la direttrice, espande le semplici tecniche di proiezione per creare degli ambienti immersivi con In search of vanished blood, realizzato nel 2012 per dOCUMENTA a Kassel, immagini evanescenti e multiple che appaiono e si muovono in modo spettrale: sono i suoi giochi di ombre, animazioni tridimensionali realizzate con cinque cilindri rotanti di mylar dipinti ma trasparenti, attraverso cui la luce e le immagini sono proiettate e accompagnate da musica e parole di diverse fonti letterarie. Lo spettatore viene coinvolto a tal punto da diventare un tutt’uno con quella stanza e quelle opere, fino ad abbandonarsi per perdersi e (forse) ritrovarsi migliorato e impreziosito nel corpo e nella mente. “Sono state le donne le principali vittime di un sistema – precisa Marcella Beccaria, curatrice della mostra – donne che segnano in maniera indelebile la memoria artistica della Malani sin dagli esordi. L’artista – continua – ha affrontato l’inarrestabile e ciclica violenza che caratterizza il nostro mondo globalizzato, l’accanimento contro il genere femminile e lo sfruttamento incontrollato delle risorse naturali”. La sua è un’arte che non trova soluzione in un unico mezzo espressivo, forma, stile o tecnica: “E’ un qualcosa che consente alle immagini di emergere simultaneamente per poi dissolversi e il suo lavoro riguarda la possibilità di rendere visibile l’invisibile, di mettere in primo piano le ombre, di combinare ciò che è documentabile e urgente con una visione mitica e universale”.
Scegliere Cassandra e il suo mito come simbolo di tutto ciò che è stato negato alle donne, non è stato per lei certo un caso. “Rappresenta l’impresa incompiuta della rivoluzione femminile con idee e premonizioni che non sono state comprese e tenute in alcun riguardo”, ci spiega la Malani. “Fece di tutto affinché le sue profezie fossero accettate dal padre, ma riuscì solo a suscitare la sua collera, poiché lui non accettò la verità. Oggi – aggiunge – non si presta attenzione a istituzioni profonde che potrebbero avere un impatto positivo sul futuro dell’umanità, ma si continua solo ed esclusivamente nella direzione della morte e della distruzione, senza alcun pensiero riguardo alla costruzione di un futuro più umano. Da quando ho studiato quel personaggio, penso che esista una Cassandra in ognuna di noi: deve solo venire fuori”.
Simile a lei è stata Medea, degenerata e deviante, ma mentre la tragedia di Euripide presenta quella figura come una madre cattiva che uccide i figli a causa del tradimento del marito Giasone, Christa Wolf – la scrittrice dissidente della Germania dell’est molto amata da Malani – ne ritentò nel 1996 una riabilitazione in chiave femminista. “In Malani – ci fa notare la direttrice del museo (che in questi giorni ospita anche Hito Steyerl con “The city of broken windows - La città delle finestre rotte”) – non è Medea a uccidere i propri figli ma la folla, e lei è una donna indipendente che disprezza la corruzione che diventa il capro espiatorio di una vile società patriarcale”. La riabilita, ma la sua “è una costruzione femminista di narrazioni alternative”.
Il suo è un urlo al mondo senza distinzione di genere e lei, da anni, è il simbolo di resistenza di passato e di una contemporaneità dove il patriarcato e il capitalismo hanno soffocato la libertà delle donne per troppo tempo. “Per superare questi tempi bui di dominio del mondo da parte dell’ortodossia maschile – ci dice alzando leggermente il tono della voce, mostrandoci una partecipazione dolorosa e sentita – dobbiamo imparare ad ascoltare le donne che ci hanno precedute; non sempre è facile, ma con un piccolo sforzo tutto questo sarà possibile”. Tra le soluzioni, conclude, è fondamentale far rivivere i miti antichi, perché essi si servono di un linguaggio simbolico che consente l’accesso a importanti nuclei di verità. “I miti sono emersi da una saggezza che si è tramandata da una generazione all’altra: nessuno di essi è riconducibile a un singolo autore, anche se diverse società hanno generato queste figure come una sorta di inconscio collettivo”.
Sarebbe bello attivarne uno, le chiediamo. “E’ possibile – risponde subito – basta renderlo pertinente al proprio tempo e al contemporaneo in cui si vive. Ma – precisa – non bisogna mai dimenticare di osservare il mondo che ci circonda, cercando di comprenderlo, conservarlo e mantenerlo non come un ricordo fugace, ma come un essere vivente”.