Il “Gorgia” di Platone è stato scritto dopo le elezioni del 4 marzo
Riletture contemporanee. Da Socrate a Di Maio, Salvini e Mattarella
Mentre il tempo passa, niente scorre e il Censis ci scatta una foto di gruppo avvilente, vinti dal bisogno umano di passare una fine d’anno di panico almeno controllato, un rimedio potrebbe essere tuffarsi tra le braccia di Platone e delle pagine del “Gorgia, o della Retorica”. Tuffo utile a rifocillare lo spirito e a convincersi che, sebbene la composizione di quest’opera soffra un’incerta datazione (ma mai come la manovra di governo o certe briose trovate come il reddito di cittadinanza, strombazzato, imbalconato e poi di fatto rinviato al mese del mai), un fatto è invece certissimo: il passato è sempre qui, sempre presente, al punto che se dovessimo azzardare ipotesi sulla data del dialogo platonico non avremmo dubbi: il 2018.
Di più: il “Gorgia” è stato scritto tra marzo e settembre di quest’anno, avendo presente la situazione italiana. L’opera – che parla di politica, linguaggio e realtà – vede avvicendarsi sulla scena, nella parte che ci interessa, tre protagonisti: Sergio Mattarella nel ruolo di Socrate, critico della fuffa gialloverde come pratica manipolatoria; Luigi Di Maio nel ruolo del giovane ciarlatano Polo, che argomenta con più impeto che acume su giustizia e ingiustizia, esordendo in spavalda offensiva-impingiment con un disintermediatissimo “ma cosa dici, Socrate?”, salvo poi non capire un’acca di quel che Socrate tenta di spiegargli; e Matteo Salvini nel ruolo dello smodato Callicle, che strepita, cafoneggia e cerca l’incidente istituzionale.
Ma atteniamoci al testo. L’atteggiamento che Socrate ha verso Di Maio è chiaro già dalle prime righe: non lo stima, non fa nulla per nasconderlo e anzi, spesso lo irride. Di Maio frigge di sospetti complottari e sbotta: “Non mi sarà dunque permesso di dire tutto quello che voglio?”. Ma ovviamente, quel che vuole lo dice eccome. E dice che la retorica porta al giusto perché compiace gli uomini, impelagandosi nel più classico equivoco grillino: ciò di cui sono persuasi i più è per forza giusto. Socrate lo sconfessa, lo provoca con un “io ti rispondo, ma capirai bene la mia risposta?” e gli dimostra come ciò che lusinga non porti al bene. Di Maio è alle corde, blatera e incasina argomenti.
E Socrate, esausto dopo il bombardamento di scempiaggini: “Sono domande, queste, o il principio di un discorso?” Di Maio cerca il diversivo e difende il potere secondo i grillini, proprio di chi “manda a morte chi vuole e scaccia dalla città chiunque non gli piaccia”. Socrate perde la pazienza: “Corpo d’un cane! Ti pare che se uno fa quel che gli pare meglio, ma senza intendimento, questo sia bene?” Di Maio allora tenta invano di dimostrare che un ingiusto che non paghi pegno possa essere felice. “Queste argomentazioni non hanno alcun valore per la verità” lo stocca Socrate, poi boccia il decreto sicurezza dicendo che portare un pugnale sotto l’ascella garantisce predominio ma non saggezza d’uso, infine lo stende dichiarando che produrre ingiustizie è più dannoso che riceverle e che le dirette su Facebook non conducono alla verità.
Poi è la volta di Salvini, che Socrate taccia di banderuolismo pensando forse alla flat tax leghista archiviata per cavalcare il reddito di cittadinanza o al giustizialismo ridimensionato quand’è la Lega ad aver frodato 49 milioni di euro. Ma Salvini contrattacca: volere l’uguaglianza è da deboli, la giustizia è il predominio del più forte, il coraggio vale più dell’intelligenza, e ok la filosofia, ma Socrate dovrebbe andare a lavorare.
Il filosofo lo invita a non fare lo spaccone e gli rispiega tutto da capo, sintetizza l’economia italiana con l’immagine degli orci bucati in cui si versano liquidi senza esito, afferma che lusingare gli uomini non è fare il bene, che il bene è produrre armonia e salute, e che intossicare i rapporti con Bruxelles porta all’orcio bucato. Salvini non ha argomenti. “Non capisco cosa dici, Socrate”, tuona, “e non m’importa niente! Non potresti parlare da solo e rispondere a te stesso?”. Così Mattarella finisce a predicare nel deserto. E nel messaggio conclusivo ci ricorda che della retorica si deve far uso a fini di giustizia. “Serviamoci del ragionamento quale guida, coltivando verità. Invito tutti a questa vita e a questa lotta.”
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