In “Zona” Tarkovskij
Il libro di Geoff Dyer sul grande regista russo è una chiacchierata metafisica sul desiderio
Verrebbe da chiedergli di fermarsi, di invitarlo a prendere una birra, o meglio un sorso di vodka, proprio in quel bar dell’attesa che apre il film di Andrej Tarkovskij “Stalker” (e nessuno lo pronunci stolker). Il libro di Geoff Dyer è una chiacchierata complessa, color seppia. L’autore britannico racconta e descrive scena per scena l’opera cinematografica che il grande regista russo diresse alla fine degli anni Settanta e trovarsi tra le mani, come si legge in copertina, “un libro su un film su un viaggio verso una stanza” è come vivere dentro la cinepresa di Tarkovskij, chiudercisi, rimanere intrappolati nello sguardo insistente e dolcemente invadente del regista dell’irrequietezza della storia russa. Dyer è uno Stalker (il termine indica un esperto del territorio) dispettoso, una guida un po’ imbrogliona, ma solo per celia. Accompagna il lettore tra le scene del film, ma non tira i dadi come fa Alexandr Kajdanovskij, l’attore sofferente di Tarkovskij, non è agitato. Procede veloce, sicuro e ogni scena è la descrizione di un momento perduto della sua vita, di un rammarico, ma privo di nostalgia. Dyer non ha più paura della “Zona”, titolo del libro pubblicato da il Saggiatore con la traduzione di Katia Bagnoli, e nome dell’area in cui lo Stalker accompagna un professore che chiamerà Professore e uno scrittore che chiamerà Scrittore, che ha il volto di Anatolij Solonicyn, attore preferito del regista. Tutti e due un po’ folli, tutti e due molto soli, tutti e due tremendamente impauriti dal fatto che alla fine di questo tragitto pieno di insidie potrebbero incontrare il loro desiderio, racchiuso dentro la stanza che è la meta dell’esplorazione. La Zona è la metafora del proibito: “loro”, un modo per dire Unione sovietica senza dirlo, non vogliono che vi si acceda, tutt’attorno ha del filo spinato e per entrarvi lo Stalker, lo Scrittore e il Professore rischiano di essere uccisi. Dyer ha guardato e riguardato questo film per trent’anni, è diventato la sua ossessione e il libro, leggero, veloce e sincero, ne è la sublimazione.
“Stalker” è il film del ripensamento, del voluto che per sempre rimarrà proibito, per paura o per fallimento, e la chiacchierata letteraria con lo scrittore britannico è la sua voglia di ricordare gli amori sognati, le perversioni lasciate all’immaginazione, tutto ciò che non abbiamo vissuto e che rimane incastrato nel desiderio. Nel film il desiderio è rovente, amaro come i colori della pellicola – alcune scene sono in bianco e nero, altre seppia, altre ancora a colori freddi, acidi, fastidiosi –, nel libro tutto questo desiderare si fa a tratti dolce, a tratti ironico. I fallimenti e le speranze di Geoff Dyer riemergono con le immagini del film. Una volta Andrej Tarkovskij raccontò che il pubblico è un principio creatore, che guardare un buon film è tanto difficile quanto girarlo – la citazione la prese in prestito da Goethe che sosteneva che leggere un buon libro non fosse un’impresa molto più semplice dello scriverlo – e a trent’anni dalla sua morte, arrivata in Francia nel 1986 , Dyer fa esattamente questo, anzi, complica ancora di più il pensiero del regista, decide di scrivere un libro su un film. Un film complesso e difficile, fatto di immagini e di parole rare e assolute, di qualche suono e di luci accecanti.
Quando in Unione sovietica proiettarono “Stalker”, la Komsomolskaja Pravda, quotidiano del Partito, lo citò tra i sei film che avevano incassato di più quell’anno, era il 1979 – e in tanti ancora si chiedono come mai non fosse stato censurato, l’allusione al regime comunista è piuttosto chiara. Per il regista fu una notizia strana. Il film attraeva per la sua complessità, una complessità che Dyer non tenta di semplificare: la destruttura, la srotola, la fa diventare vita, la sua, quella di Tarkovskij, la nostra. La vita non vissuta, trascorsa a desiderare, a volere e a temere. La vita che si consuma un po’ per noia – “tutto è disperatamente noioso” dice una voce fuori campo all’inizio – un po’ per paura. Il film non chiarisce, né Dyer osa farlo. I personaggi attraversano la Zona e infine arrivano alla stanza, ma non vogliono entrarci. Hanno paura del loro stesso desiderio, rimangono nel limbo umido delle loro esistenze, tornano indietro, in quel bar color seppia nel quale mentre leggiamo il libro vorremmo tanto incontrare Dyer e confidargli che no, nemmeno noi entreremmo in quella stanza.