Racchette e cognac
Quando il tennis era un mondo libero e si ascoltava il suono della palla sulle corde. Il libro di Matteo Codignola
Umilmente confessiamo che finora la nostra conoscenza in materia di tennis ammontava alla scena di “Delitto per delitto” dove Hitchcock inquadra il pubblico che segue la pallina, sguardo a destra sguardo a sinistra. Un sol uomo resta immobile, gli occhi fissi su Farley Granger che si prepara a bordo campo, spaventatissimo. Il tennista, afflitto da una consorte che gli negava il divorzio, era stato avvicinato dallo sconosciuto con una proposta. Io uccido tua moglie, tu ammazzi il mio dispotico genitore: non avendo movente, scamperemo la galera. Lo sconosciuto aveva fatto la sua parte, toccava al tennista rendere il favore.
Pochino, per affrontare la lettura di “Vite brevi di tennisti eminenti” (Adelphi). Eravamo però ferrati sull’altro versante: i saggi – ma forse sarebbe meglio dire “essai”, alla maniera di Montaigne – che maturano da un’ossessione personale. E la raccontano di sponda. In questo caso, partendo da un mucchietto di fotografie ritrovate da Matteo Codignola nella valigia di un collezionista. Immagini di tennisti anni Cinquanta, punto di partenza per altrettante storie da ricostruire frugando tra archivi e giornali. Quando il tennis non era ancora entrato nella fase adulta e professionale che conosciamo oggi. Quando le conferenze stampa e le vite dei campioni svoltavano verso lo spettacolo d’arte varia, affascinante quanto le partite.
Torben Ulrich
Racconta Matteo Codignola, tennista in proprio e maniacale conoscitore di ogni risvolto del magnifico sport, che alla prima edizione di Wimbledon, anno 1877, parteciparono 22 giocatori “con un outfit vagamente ispirato al cricket, una racchetta personalizzata, e una concezione delle regole, o perfino delle finalità del gioco, del tutto idiosincratica”. Da qui discendono tennisti come Torben Ulrich, fissato con il suono perfetto della palla sulle corde. O giocatrici come Suzanne Lenglen: al cambio campo beveva cognac dalla fiaschetta d’argento e girava accompagnata da mamma e papà, ossessionato più della figlia dal match perfetto. Oppure, per fare un nome che ricorda qualcosa anche a chi conosce Roger Federer solo per via di David Foster Wallace “Il tennis come esperienza religiosa”, Ilie Nastase. A uno spettatore che, stufo dei fuori programma sotto forma di monologhi, lo accusava di “faire du cinéma”, il tennista rumeno piccato precisò: “Je fais du théâtre”.
Suzanne Lenglen
Ogni fotografia d’epoca ha la sua ricca didascalia, e ogni dettaglio è impreziosito da divagazioni alla Tristram Shandy. Una è dedicata alla colazione dei campioni, che farebbe stramazzare i nutrizionisti d’oggi. Bistecche tre volte al giorno, se non erano spaghetti-patatine-uova strapazzate in quantità, annaffiate da birra e succo d’arancia (a mezzogiorno, poi sei ore di tennis e a cena il bis). Un altro divorava tutto quel che che gli mettevano davanti, i pasti erano apparecchiati in un locale separato per tenere lontani i curiosi.
Altra divagazione, sulle fotografie: gli scatti Muybridge, che scompongono il movimento, e gli scatti Lartigue, che mostrano i tennisti con i piedi staccati da terra. Osservazioni tecniche, match mandati a memoria, “Vesciche eccetera”, sconfinamenti a Hollywood, scandali e isterie. Inframmezzati da gustosi siparietti autobiografici che si intrecciano con “la passion predominante”. Matteo Codignola ricorda quando da piccolo, vestito elegante e con l’inseparabile Pinocchio di gomma fu presentato a Ludwig Binswanger (Codignola padre lavorava nella clinica svizzera fondata dallo psichiatra). Il luminare aveva scritto un saggio intitolato “Tre forme di esistenza mancata-Esaltazione fissata, stramberia, manierismo”: l’occasione per chiedersi se la vita dei tennisti, o magari degli appassionati di tennis, rientra in quel modello. (La risposta, nel caso ve lo stiate chiedendo, è un deciso “no”). Matteo Codignola confessa di aver pensato, di sfuggita, a questo libro come un tentativo di liberarsi dal vizio. “Vite brevi di tennisti eminenti” riesce solo a contagiare il lettore, che vorrebbe altre storie di palline e di racchette.