I tesori che Walpole raccolse nel Grand Tour in un'Europa aperta
"Ritorno a Strawberry Hill”. Ricordi, reliquie e oggetti del figlio dell'ex premier britannico in mostra a Londra
Londra. I fantasmi di casa saranno felicissimi ora che sono tornati tutti: i quadri, gli oggetti d’arte, quell’orologio d’oro che Enrico VIII regalò a Anna Bolena quando ancora le voleva bene – tic toc tic toc – e il vaso di porcellana cinese in cui il gatto preferito di Horace Walpole, scrittore e storico dell’arte, collezionista e molto altro, affogò cercando di afferrare un pesce rosso, finendo celebrato in un’Ode scritta apposta dall’amico e compagno di Grand Tour Thomas Gray. “L’arte più gaia della Cina ha dipinto fiori azzurri al vento”, scrive Gray, e subito pare di sentire quattro passi di zampa felina nelle gallerie di Strawberry Hill, extravaganza neogotica e impresa esistenziale iniziata nel 1747 e finita quarant’anni dopo, molto prima che i Vittoriani ammantassero il genere di quel lugubre moralismo di cui qui, a pochi passi dal Tamigi, tra chiare scalinate di legno e festose gallerie degli specchi, non c’è traccia.
C’è di tutto, nel vulcanico Walpole, generatore di un arsenale di immaginario e gusto così persistente che quando nel 1842 gli eredi misero all’asta la sua collezione, in meno di un mese sparì tutto: ora per la prima volta e fino al 24 febbraio, con la mostra “Tesori perduti di Strawberry Hill”, la collezione è di nuovo insieme tra le mura decorate per accoglierla. Non aveva ancora scritto il suo capolavoro “Il castello di Otranto” che Walpole, figlio del primissimo primo ministro inglese Sir Robert, era già un trendsetter: quando per decorare le finestre contattò un mercante italiano di vetrate fiamminghe, tutta Londra lo copiò, facendolo diventare, con la sua finta casa di famiglia, presa in giro della country house e pastiche “filologicamente corretto” di passati splendidi, un’autorità incontrastata.
I geniali Walpole, che il titolo l’hanno ricevuto tardi nonostante il rango e i servizi al paese, si divertivano molto a produrre tradizioni: il neoclassico istituzionale e “stately” sta a Houghton, la villa neopalladiana del Norfolk fatta costruire da Robert nel 1722, mentre a Strawberry Hill Walpole figlio ha giocato con la storia e con la vita degli oggetti, come la sedia di uno dei giudici che condannò Guy Fawkes durante la congiura delle polveri. O il cappello del Cardinal Wolsey, poi comprato da un attore che lo usava quando doveva interpretare il cardinal Wolsey. O la cravatta che Walpole stesso amava indossare: di legno, finemente intarsiata, vera imitazione della realtà. “Aveva aperto la casa al pubblico, stampava tutto lì, aveva pure inventato un font”, spiega la curatrice Silvia Davoli, che per anni ha osservato i disegni della casa per cercare di ricomporre il puzzle.
Lei, con gli occhi dell’innamorata, vede quello che manca, il vuoto sulla parete, mentre il visitatore si perde dietro alla cornucopia di meraviglie e trouvailles che a distanza di trecento anni parlano di Horace come se fosse uscito ieri dalla stanza. Non stupisce che la parola serendipity l’abbia inventata lui e non, come si potrebbe pensare, qualche ideologo New Age. “L’ironia è la chiave di volta di tutto, in casa”, prosegue Davoli, che racconta di questo “British Vasari”, primo a scrivere una storia dell’arte, uno che “in Italia sarebbe stato preso molto più sul serio”, anche perché sapeva tutto, tanto che Stefan Zweig usò le sue lettere come fonte principale per la biografia di Maria Antonietta. “Walpole non deve essere visto come un eroe nazionale, il Settecento non è un secolo chiuso – prosegue Davoli – ha fatto il Grand Tour, sarà stato quindici volte in Francia, quello tra Inghilterra e Francia è un definirsi reciproco”.
“La descrizione della Villa”, testo del 1774 che è una specie di assicurazione sulla memoria di Strawberry Hill, ne parla come di un “Vaticano gotico di Grecia e Roma”. Non che l’antichità rubi la scena al resto, al di là della maestosa aquila romana ritrovata, si dice, nel 1742 in un giardino vicino a Caracalla. Un disegno del “glorioso pennuto” è presente nel ritratto di Walpole fatto da Joshua Reynolds mentre l’altro è firmato da Rosalba Carriera, pittrice veneziana, regina del rococò e di certi contorni sfumati più efficaci di un filtro Instagram. Nel soggetto spiccano gli occhi intelligenti e una certa attitudine al sorriso: di eredi non ne ha avuti, la sua presunta omosessualità è un pettegolezzo vecchio di secoli, quel ritratto di un amico in vesti da pastorello con il broncetto carino e i boccoli lustri è ancora lì a far parlare. “Repubblicano quieto, che non disdegna l’ombra di un re”, Walpole amava soprattutto le regine: Mary Tudor, futura sovrana di Francia, di cui conserva una ciocca di capelli (rossa), Margherita di Valois, Caterina de’ Medici, ritratta insieme ai suoi figli, compresa la futura Regina Margot, in un quadro di Clouet del 1561.
La regina del cuore di Walpole però è solo marchesa, Madame de Sévigné, autrice di quelle lettere incantevoli alla figlia: lui si affida a una stampa della sua casa parigina, l’Hotel Carnavalet, per parlargli un po’ di lei. Per casa girano fantasmi candidi come le tre nipoti dipinte da Reynolds, sempre lui, come le parche che tessono il destino degli uomini, o scuri come la povera Sarah Malcolm, una badante messa nei guai dal suo amante, dipinta da William Hogarth tre giorni prima della condanna a morte. In mancanza di eredi, nel 1860 la casa passa a Lady Frances Waldegrave, e poi, di eccentrico in eccentrico, nel 1900 arriva a una famiglia di banchieri ebrei, che ci ospita la Pavlova, Nijinski e i Ballets Russes. Nel giro di vent’anni l’aria cambia di nuovo, arriva un’università cattolica nel vicinato e Strawberry Hill si riempie di preti: i religiosi fumano molto nella biblioteca ormai dipinta di rosa, ma i libri erano a Yale, lontano da questo Oscar Wilde di cent’anni prima e dal modello di ogni casa della vita: per John Soane, per Leighton, per lo stesso Mario Praz. Lo spirito, quello continua a starsene lì, sereno e curioso accanto al Tamigi.