Grazia Nidasio e la guerra di Stefi
Con i suoi fumetti ha raccontato la vita delle ragazze che stava cambiando, e oggi chi lo fa più?
Adesso che Grazia Nidasio è morta nella bellissima Certosa di Pavia dove si era ritirata da tempo senza forse curarsi come avrebbe potuto, ma dopotutto ottantasette anni e la fama di massima illustratrice italiana sono un buon traguardo, ci rendiamo conto che il nickname del suo personaggio più famoso, l’adolescente Valentina “Mela Verde”, debba essere spiegato alle sue coetanee di oggi, che invece corrono ai finti concerti di Sfera Ebbasta organizzati nelle finte discoteche dei piccoli imprenditori italiani che, si sa, sono la vera spina dorsale del paese.
“Mela verde” era la condizione della acerbezza carica di promesse sessuali di quegli anni contestatari, quando prendere la vita a morsi era un dovere (“chi Vespa mangia le mele” fu lo slogan più azzeccato dalla Piaggio, ripreso a tempo debito da Vasco) così come le crisalidi lo erano state nell’immaginario vittoriano di Lewis Carroll. Oggi le cose sono diverse, e dovremmo interrogarci un po’ sulle nostre sconfitte come madri (come femministe lasciamo perdere) e sul motivo per cui, alla notizia della scomparsa della Nidasio, gli account social delle cinquantenni si sono popolati di frasi nostalgiche e di immagini della famiglia Morandini, di cui il Corriere dei Piccoli e poi il Corriere dei Ragazzi pubblicarono le tavole fra la fine degli anni Sessanta e le ultime propaggini dei Settanta.
I Morandini erano l’espressione grafica più vicina alla borghesia accogliente, perbene e un po’ incerta fra passato e futuro, quella che si immaginava rappresentasse il lettorato medio del Corriere della Sera di quegli anni: un papà molto occupato che fumava la pipa, una mamma graziosa e rassicurante come il risotto giallo e dunque priva del nome di battesimo (“la mamma”), Valentina con le lentiggini e i capelli corti rossi, tutta presa dai suoi affanni di crescita ma abbastanza spiritosa da non farlo pesare – perché l’adolescenza non era ancora diventata una malattia invalidante – il fratello maggiore Cesare, detto “il Miura” per via della passione per le auto sportive, un cane battezzato Ubu di cui tutti i lettori coglievano ancora il riferimento letterario (oggi nessuno si arrischierebbe), la zia Dina che andava facendosi strada nel mondo della moda, dispensando consigli azzeccatissimi anche per noi e che, come avremmo scoperto molti anni dopo, assomigliava parecchio alla Elvira Leonardi Bouyeure in arte Biki. Infine, c’era “la Stefi”, la sorellina minore, articolo indicativo d’obbligo, à la milanaise. Inquisitiva nei riguardi di un mondo adulto che fingeva di non capire (“che cosa continuate a parlare? Fatela questa battaglia per la emangiapazzone”), la Stefi era la nostra Mafalda, di cui era coetanea e coeva, tanto che, quando l’eroina grassoccia e letale di Quino arrivò in Italia, con l’onda lunga del ’77, a noi che facevamo ancora parte del club delle mele verdi e, come Valentina, ci destreggiavamo nell’arte della diplomazia scolastica e amorosa, parve un inutile affronto.
L’alternativa ai supereroi
La Stefi scriveva i propri pensieri in corsivo su un diario con fogli a quadretti, ed era talmente acuta che, nei primi anni Novanta, Paolo Mieli al suo primo round direttoriale al Corriere decise che meritasse una striscia tutta per sé: dopotutto, erano già vent’anni che faceva il verso agli adulti (“e tu a chi vuoi più bene? A Fanfani o a Berlinguer?”, ribatteva alla sconosciuta che le faceva domande personali sull’autobus). La Stefi, un po’ in incognito, è arrivata fino ai nostri giorni: nel 2007, la serie pilota tratta dalle sue storie ha vinto il Pulcinella Award alla rassegna Cartoon on the Bay, e alla Rizzoli ci dicono che i suoi libri di ordinaria straordinarietà si vendano ancora piuttosto bene fra gli adulti. Ai nostri figli, anche ai nostri nipoti, diamo i videogiochi con gli eroi intergalattici che si esprimono a grugniti, e poi ci lamentiamo.