“L’Avana, 1997” (per gentile concessione dell’autore. La foto appare nel volume “La misura dell’Occidente”)

ll mondo è immagine

Luca Fiore

Quando la fotografia avvicina a Dio. I viaggi, i maestri, il trionfo del colore. Poi solo polaroid. Incontro con Giovanni Chiaramonte

Una colonna dorica a Gela, il paese natale dei suoi genitori. La Magna Grecia, con tutto quello che significa. Un simbolo che si ritrova a ogni tappa di un lungo peregrinare su su, fino alla reggia di Glienicke a Berlino, poi tornando ad Atene e Istanbul, e dopo deviando sempre più a Ovest verso il Portogallo per prendere il largo nella traversata dell’Atlantico verso Stati Uniti, Messico, Panama e Cuba. La colonna è sempre lì, in tempietti, portici, case in rovina. Un segno di qualcosa capace di resuscitare il presente da un passato che non riesce a passare. Il reperto che Giovanni Chiaramonte chiama “La misura dell’Occidente”, il titolo del libro, edito da Postcart, che raccoglie le immagini di questo viaggio che dura da oltre trent’anni, accompagnate dai disegni di viaggio di un gigante dell’architettura mondiale, il portoghese Álvaro Siza.

 

Dal landscape all’inscape. “La misura dell’Occidente” raccoglie le immagini di un peregrinare che dura da oltre trent’anni

Nell’anno del suo settantesimo compleanno l’artista milanese, sodale di Luigi Ghirri e pioniere dell’editoria fotografica in Italia, pubblica anche un altro libro di natura apparentemente opposta: “Salvare l’ora”. E’ la raccolta di polaroid che Chiaramonte ha iniziato a scattare nel 2011. L’orizzonte non è più quello infinito del paesaggio, ma la dimensione è diventata domestica, intima. Dal landscape, che tradisce l’immagine del destino di una civiltà intera, si passa, usando un’espressione che l’artista ruba al poeta inglese Gerard Manley Hopkins, all’inscape, dove ad apparire è il destino personale. Eppure, assicura Chiaramonte, sono due movimenti speculari, uno verso l’esterno, l’altro verso l’interno, entrambi mossi dalla stessa energia propulsiva, innescata dalla medesima certezza: il mondo è immagine. “La Bibbia dice che l’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio. Il che significa che l’eterno, l’infinito, ha scelto di creare me come immagine. Anche il mondo, la creazione, presentandosi a noi come dato di realtà, suggerisce che l’esistenza di un ‘datore’. Io posso comprendere che cosa sono nel momento in cui prendo coscienza di questa mia misteriosa somiglianza. A me che sono fotografo, produttore di immagini, è dato il compito di svelare così il destino dell’uomo e del mondo”.

  

Il linguaggio di Chiaramonte tradisce le sue innumerevoli letture: da Hans Urs von Balthasar a Olivier Clément, da Romano Guardini a don Giussani. Una riflessione che si intreccia con quella sulla storia della fotografia che, per lui, non è un caso nasca tra Francia e Inghilterra. E’ lì, infatti, che sono comparse per la prima volta le vetrate delle cattedrali gotiche: immagini fatte con la luce. Ma il suo studio matto e disperatissimo si consuma anche sulle opere dei maestri americani della fotografia: Paul Strand, Ansel Adams, Minor White, Joel Meyerowitz. E di quelli europei: André Kertész, Henri Cartier Bresson, Robert Doisneau. Ma è dal cinema che impara l’uso del colore. Alla fine degli anni Settanta la tecnologia della fotografia a colori iniziava a fornire il materiale per un lavoro artistico che reggesse l’usura del tempo. Chi, prima di allora, si era già posto il problema del passaggio dal bianco e nero al colore erano stati i cineasti: Ingmar Bergman, Robert Bresson, Michelangelo Antonioni, Andrej Tarkovskij. Da loro impara le potenzialità poetiche delle scale cromatiche. All’inizio degli anni Ottanta, con questo bagaglio che è tecnico e culturale insieme, affronta il mare aperto proprio in un momento magico, che vede gli esordi di quelli che oggi sono considerati i maestri della fotografia italiana.

 

C’è una chiave per comprendere che esiste un percorso che lega l’infinito al tempo in cui siamo, al luogo che abitiamo

La storia de “La misura dell’Occidente” inizia nel 1983 quando Chiaramonte segue il consiglio di un grande architetto tedesco, Oswald Mathias Ungers, che gli dice: “Per comprendere Berlino va’ al Castello di Glienicke, progettato da Karl Friedrich Schinkel per il Principe Carlo di Prussia”. L’idea, spiega Chiaramonte, era di ritornare a un luogo dove fosse rintracciabile il cammino dell’occidente, dove si potessero rinvenire le ragioni per costruire una nuova città europea, secondo un’immagine dell’uomo corrispondente alla sua natura. “In Ungers, cattolico, era profondissima l’esigenza di trovare e mantenere la misura dell’umano. Per lui la finitezza, rappresentata dalla figura simbolica del quadrato, era in grado di aprire il cuore di chi abita il mondo all’infinito di Dio che, in Cristo, è presente nella storia grazie all’esperienza dei sacramenti. Esiste cioè una chiave per comprendere che esiste un percorso che lega l’infinito al tempo in cui siamo, al luogo che abitiamo, dove convivono tutti i tempi della storia”.

 

Ciò che è più lontano dalla gloria del mondo, se tu sei in preghiera, diventa luce. L’ho imparato da Tarkovskij

Non è un caso che, proprio durante quel viaggio a Berlino, avvenga l’incontro tra l’opera di Chiaramonte e quella di Álvaro Siza. “Andai a fotografare il suo edificio ribattezzato Bonjour Tristesse, costruito in Schlesische Straße, nel quartiere di Kreuzberg, a poca distanza dal Muro. Le mie immagini, pubblicate da Lotus, fecero il giro del mondo facendo conoscere la sua prima opera realizzata fuori dal Portogallo”. Per Siza, spiega il fotografo, la dimensione del moderno non è presa dalla tradizione che viene da Le Corbusier, che tenta di rompere con la storia. “In lui il moderno è l’essenzialità di ciò che ci consegna il passato. La sua linea viene dal razionalismo milanese – non dimentichiamo che a progettare il piano urbanistico di Porto era stato Giovanni Muzio – per il quale il nuovo sta nel rendere conto nel presente dell’eredità della storia”. Di Siza, cattolico che sotto Salazar abbraccia la causa della sinistra, Chiaramonte ama l’afflato sociale, l’impegno per l’edilizia popolare. “Per lui il compito dell’architetto è “servire il popolo” che, poi, è quello che vorrei fare io con la mia fotografia: dare un contributo per il bene comune. Quando andai per la prima volta a trovarlo, di lui mi colpì lo stile di vita essenziale. Architetto di successo che era riuscito a trovare una dimensione che stava fuori dagli idoli della modernità. A Evora venne a prendermi di persona alla stazione degli autobus e mi aiutò a portare le valige…”.

 

L’arte non è nostra, dice Chiaramonte, è un dono che riceviamo quando siamo in ascolto del mondo. “In Siza questo è il grande tema: ovunque vada, lui è in ascolto. Ogni cosa è benedetta dal suo sguardo. La sua architettura nasce da questo suo guardare che si fa disegno. Questo rapporto con le cose non precipita nell’utopia del grande architetto: lui non sta costruendo la Torre di Babele. I suoi edifici rispettano la misura dell’umano che, lo sappiamo, non è solo l’altezza, ma anche la bassezza. Non è solo luce, ma anche buio”.

 

Il buio. Immagine del dolore, dell’incapacità di vedere. E’ da questa esperienza che, misteriosamente, nasce l’altro libro di Chiaramonte, “Salvare l’ora”. “Nel 2011 la Diocesi di Milano mi aveva chiesto di partecipare alla realizzazione del nuovo Evangeliario ambrosiano. Mai la fotografia era stata usata per la funzione liturgica e io non sapevo bene da dove incominciare”, racconta: “Era un periodo difficile. A causa di una forte depressione i medici mi avevano vietato di fotografare con l’attrezzatura professionale: macchine di medio formato su cavalletto, che necessitano uno sforzo fisico ed emotivo che, in quel periodo, non sarei riuscito a sopportare”. La chiamata dell’arte è più forte e il fotografo si arma di uno strumento rudimentale: una macchina a sviluppo istantaneo, che non permette nessun tipo di intervento prima e dopo lo scatto. Una Fuji Instax da cento euro. “Una mattina tornato da messa, che era stata una luce nel mio buio, sono entrato nella sala da pranzo di casa mia. Il sole dell’inverno attraversava le tende, tracciando una linea sul tavolo. Il raggio colpiva un sigillo di cristallo che rifrangeva l’arcobaleno dei diversi colori”. E’ un’epifania. Tira fuori la macchina, si avvicina, e scatta. “Quella piccola immagine, sei centimetri per dieci, aveva tutta la forza di ciò che stavo sentendo in quel momento. Mi resi conto che, per rispondere alla commessa della Diocesi, io potevo solo tracciare immagini del mio rapporto con Dio, così come appare nei luoghi domestici dove mi trovo a pregare ogni giorno. Ciò che potevo fare era dare testimonianza della mia esperienza di fede, mostrandone queste piccole tracce”.

 

Nascono così le fotografie che introducono, nelle pagine dell’Evangeliario ambrosiano, i periodi liturgici. Ma inizia anche un nuovo tipo di lavoro, che impone a Chiaramonte una faticosa spoliazione: il nuovo mezzo lo costringe a mettere da parte tutta la tecnica acquisita in una vita di lavoro per imparare di nuovo. “Ho dovuto prendere le misure sulla qualità dei colori, la posizione e la distanza a cui mettermi perché il soggetto acquisisse significatività dentro un formato, quello rettangolare, a cui non ero abituato”. La “misura dell’Occidente” era stata rappresentata con la macchina a medio formato (il negativo è di 6 centimetri per 6), la messa a fuoco fissata all’infinito, tempi di posa lunghissimi, l’obiettivo decentrabile per rendere parallele le linee verticali. E poi il lungo lavoro in camera oscura: sui toni, sui colori, le mascherature. Ecco, in “Salvare l’ora”, tutto questo è sostituito da un semplice click. “Ho dovuto ritarare la scala della mia percezione sui colori che automaticamente la macchina dava e, quindi, rapportarmi al mondo con quella nuova misura. Salvo la scelta del soggetto e la distanza a cui mettermi, il resto era un’obbedienza a ciò che avevo davanti. L’obbedienza al mondo”. Dentro questa nuova dimensione che è tecnica e poetica insieme, Chiaramonte si trova a fare i conti con il suo buio. “Erich Auerbach lo dice bene: il mondo pagano non è capace di gestire lo scandalo del male dell’uomo. Ne è immagine plastica l’autoaccecamento di Edipo. Il mondo greco non riesce a darsi ragione del male. Mentre l’artista occidentale, dopo la venuta di Cristo, è chiamato a una straordinaria avventura: attraversare il buio, come la luce. Questo libro dà conto di ciò che questo ha significato per me”.

 

“Salvare l’ora”, l’altro libro del fotografo, nato da una richiesta della Diocesi di Milano. La fotografia usata per la funzione liturgica

Non c’è più, dunque, l’orizzonte infinito cui confrontarsi, l’oceano, il grandioso paesaggio americano. Restano gli spazi poveri, ristretti, ridotti dai limiti della malattia. “Mi sono detto: queste piccole immagini possono essere testimonianza della povertà dell’umano, che scorge, nonostante tutto, una luce che gli porta consolazione. Io posso vedere un angolo della mia casa e questa si illumina di una ragione di vita che è quella che tutti gli umani possono incontrare”. C’è una piuma bianca su un prato verde, una foglia secca in un deposito di carbone, una linea di insalata in un orto, fiori finti sulle tombe dei bambini in un cimitero di Berlino. “Ciò che è più lontano dalla gloria del mondo, se tu sei in preghiera, diventa luce. L’ho imparato dalla lezione dell’Andrej Rublev di Tarkovskij. Quella strada del monachesimo orientale, mi ha aperto la via della Preghiera di Gesù, cioè l’intrecciare il respiro con l’invocazione: ‘Signore, figlio di Davide, abbi pietà di me peccatore’”.

 

Da giovanissimo, racconta Chiaramonte, aveva incrociato nei suoi studi l’avventura artistica di Minor White, figura chiave della fotografia americana, critico e teorico a lungo direttore della rivista Aperture. Anche lui, avvicinandosi alla religiosità orientale, aveva toccato un’esperienza simile, quella del mantra. “La recita di una breve frase che permette a chi la ripete di azzerare la preoccupazione, le paure. Ti consente di uscire dalla tua condizione di frammento disperso per ascoltare la realtà. Ascoltare il mistero. La preghiera è come l’azzeramento del tumulto interiore, perché l’interiore non è solo intelligenza, acume, che dal tuo interno va verso l’esterno. L’interno è anche un abisso, nel quale puoi precipitare”.

 

Chiaramonte ha camminato a lungo sul crinale di questo abisso, anche a causa di una grave malattia che lo ha colpito negli ultimi mesi e che gli ha impedito di prendere in mano anche la leggera Fuji Instax. Così il suo tumulto interiore si è espresso in brevi componimenti poetici, degli haiku. Poche parole, disposte su tre righe che, talvolta, mandava agli amici via messaggio. Tra questi, l’amico poeta Umberto Fiori, i cui versi hanno seguito e accompagnato moltissimi libri di Chiaramonte. Ed è stato proprio Fiori a insistere che il fotografo pubblicasse questi versi nel libro con le polaroid. Gli ultimi due haiku del libro sono questi: “Oltre la morte / Custodire il tempo / Salvare l’ora” e “Inizia il giorno / Si sveglia il cuore e guarda / inizia il mondo”.

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