Ci siamo disfatti di Dio?
Viviamo tempi gnostici un po’ troppo creativi, e ci facciamo la nostra dieta religiosa personale
Non è vero che ci siamo disfatti di Dio, stiamo soltanto vivendo in tempi gnostici un po’ troppo creativi. Questa almeno è la conclusione cui sono giunto leggendo “Dopo Dio”, il nuovo libro di Peter Sloterdijk (per Raffaello Cortina) in cui il filosofo tedesco riordina recenti scritti sparsi sulla religione, favorito dalla propria propensione allo spirito di sistema ampiamente dimostrata dalla mastodontica trilogia “Sfere”. Di là da un favore per l’eugenetica troppo ingenuo per rendergli onore, Sloterdijk ha la capacità di affrontare ogni aspetto del mondo col piglio e l’ambizione di un filosofo classico e ciò – in questo caso specifico – gli consente di analizzare le venature della religione senza risentire dell’adesione a una certa tradizionale corrente del razionalismo scettico, che qua e là riecheggia i toni puerili di d’Holbach. Non gli interessa tuttavia la polemica ostile quanto la spiegazione ponderata e ciò, sorprendentemente forse anche per se stesso, può condurlo a conclusioni non distanti dal buon senso di una parte del pensiero cristiano.
La distinzione fondamentale che traccia ha per discriminante l’apocalisse, “il momento dello sguardo onnicomprensivo rivolto all’indietro” ovvero il momento rivelatore del senso di tutto ciò che è accaduto. Nella società premoderna il retto modo di interpretare il mondo era l’ispirazione apocalittica che giungeva da Dio, unico detentore dell’onniscienza. Il moderno consiste invece nell’accettazione di varie fonti d’ispirazione e nel rifiuto dello “svuotamento del futuro” in favore della sua “inesauribilità”, che non sarà mai racchiusa da un punto di vista apocalittico, posteriore a tutto. L’islam, per dire, è incardinato sull’onnipotenza e onniscienza di Allah, “figura impossibile sullo sfondo del mondo moderno” la quale si fa carico tramite i propri accoliti della distruzione delle creature abiette: “gli attentati”, scrive Sloterdijk, “sono prove malriuscite dell’esistenza di un Dio che non capisce più il mondo”. Il protestantesimo, invece, è una teologia moderna poiché si apre al futuro per mezzo dell’intervento creativo umano, con la libera interpretazione delle Scritture, così paradossalmente limitando l’onnipotenza di Dio.
La caratteristica del moderno è infatti la translatio creativitatis: l’azione di creare incidendo sul futuro si trasferisce da Dio all’uomo e l’attuale crisi delle religioni ha a che fare solo con “la relazione tra le intelligenze creative e il mondo”. Dio sta all’uomo come quest’ultimo alle proprie protesi e, in generale, alla “seconda macchina”, l’intelligenza artificiale creata dalle creature. Ma, sostituendosi a Dio in scala, l’uomo vede sbalestrata la propria caratteristica saliente: l’eccentricità, la capacità di percepirsi e valutarsi dall’esterno, nel complesso. E’ l’eccentricità che confina gli uomini in una condizione di stabile “tensione verticale”, facendo provare loro una continua agitazione perché non riescono a essere ciò che potrebbero divenire. Dio è l’orizzonte di questo divenire, la santità il modo di fondersi in lui. La politica ha trasformato questa tensione in orizzontale, entro questo mondo, per mezzo dei principii un tempo rivoluzionari di libertà, eguaglianza e fraternità. Codesto tentativo di consolare l’uomo della propria sconfitta nella tensione verso il cielo ha però mandato in frantumi non solo la distinzione teocratica fra sommo sacerdote e massa damnationis bensì anche quella fra saggio e massa insipiente.
Su tale contesto s’impianta la fondamentale scoperta dei codici di Nag Hammâdi nel 1946. Questa biblioteca gnostica, nascosta in un otre e composta da 52 trattati in lingua copta, parve affermare la permanenza segreta di una dottrina sacra più veritiera delle religioni rivelate, basata sul principio che l’anima sia specchio della presenza divina nel mondo e testimonianza dell’intrinseca estraneità e irriducibilità a esso. Nella gnosi il rapporto fra creatore e creatura si sbilancia in questo modo: il mondo diventa abisso d’irrazionalità nel perfetto piano cosmico di Dio, una specie di danno collaterale, mentre Dio diventa abisso d’impredicabilità e l’anima il vero io, il santuario che rivela all’uomo la propria singolare relazione col divino. La gnosi trasforma la religione mediata in religione dell’immediatezza e la fede si tramuta in “dottrina della fiducia entusiasta in se stessi”.
Cinquant’anni fa Eric Voegelin individuò un filone post-gnostico che a suo dire comprendeva positivismo, marxismo, psicoanalisi, comunismo e nazifascismo. Sloterdijk è più cauto e si limita ad additare la psicoterapia, basata sull’idea della scoperta di un vero io, nascosto e ferito dai rovi del mondo, e del suo venire accompagnato ad abbeverarsi alla propria origine liberandosi così di limiti e paure irrazionali. Qui si colloca la geniale intuizione di William James, cui il libro di Sloterdijk dà il dovuto spazio. Ne “La volontà di credere” (1860) l’ormai vecchio James prefigurò gli eventi con un secolo e mezzo d’anticipo, individuando la nuova condizione della fede in ciò che Papa Francesco avrebbe poi chiamato “religione spray”. Gli individui moderni avrebbero rigettato i pacchetti completi forniti dalle fedi rivelate in cambio di una selezione à la carte di elementi spirituali a scopo terapeutico. L’originalità di ciascuna anima, o meglio il suo intrinseco legame col divino, esige un percorso di salvazione su misura, che Sloterdijk chiama “dieta religiosa personale”. Dal positivismo in poi, tutti pretendono di prendere decisioni sulla propria vita con la stessa infallibilità ascritta ai Papi. Escludendo tutti gli altri, le religioni individuali praticano la tolleranza per mezzo dell’indifferenza e della chiusura. Così sarebbe avvenuto l’aggancio fra modernità creativa e antica gnosi; ma, conclude Sloterdijk, l’illusione che ciascuna anima sia in grado di scegliere per sé il cocktail religioso che meglio le corrisponde non è altro che “autoipnotismo riflessivo o illusionismo endogeno”. Ci riporta inoltre, si capisce, nella condizione premoderna di chi intende interpretare il mondo alla luce di un’unica fonte di ispirazione: la rivelazione continua e vacua di se stesso a se stesso.