Le ruspe e Palazzo Pitti
Quando le élite traslocarono e i guai conseguenti (idea per Renzi)
Domenica pomeriggio i facinorosi in gilet giallo hanno rubato una ruspa e hanno sfondato il portone di un ministero in rue de Grenelle, a Parigi. Non per un caso, è il palazzo dove lavora il portavoce del governo per i rapporti con il Parlamento, che in una democrazia ancora funzionante sarebbe poi il popolo. I simboli possiedono una temibile forza. In Italia c’è un ministro che evoca le ruspe ogni volta che parla, ci si fa fotografare sopra come farebbero i bambini. In Francia le ruspe diventano segni efficaci di un rancore sordo ed eversivo. Poi ci sono simboli che non si muovono, stanno al loro posto, ma andrebbero guardati da vicino, perché hanno qualcosa da dire anche dopo secoli.
Matteo Renzi ha concluso sabato sera la sua lunga passeggiata televisiva, Firenze secondo me (non riuscita benissimo in quanto prodotto, tocca dire, più parole e intenzioni che immagini capaci di spiegarsi da sole. Ma l’idea era buona, e generosa al solito, e anche soltanto per questo va ringraziato, Renzi). L’ex sindaco di Firenze, l’ex premier, ha concluso la sua passeggiata, prima di un post scritto romano, davanti a Palazzo Pitti, non senza ricordarci che proprio in una casa di quella piazza Dostoevskij scrisse che “la bellezza salverà il mondo”. Ha concluso il suo viaggio ripetendo la sua narrazione, o perorazione, per la bellezza, per la buona politica unita alla buona cultura di cui Firenze è portatrice come modello per l’Italia.
Davanti a Palazzo Pitti, Renzi ha forse perso l’occasione per dire invece un’altra cosa che quel luogo evoca, per l’Europa tutta, e che è un messaggio simbolico forse più urgente e pertinente, dati i tempi. Della sua Firenze, la città della bellezza, ma soprattutto della politica intesa come bene per tutti, intesa come rapporto virtuoso tra un’élite cittadina e imprenditoriale che ha inventato le banche e i commerci e la democrazia partecipata delle arti e dei mestieri, Palazzo Pitti rappresenta infatti una negazione, e quale negazione.
Quando i Medici – famiglia di banchieri fatalmente attratti dalla passione politica per la civis, e che fecero Firenze grande e per un po’ capitale del mondo – decisero di traslocare dai loro palazzi di città nella grande reggia Oltrarno, e poi nel 1565 si fecero costruire dal Vasari il famoso Corridoio per poter passare da Palazzo Vecchio e dagli “uffici” alla loro reggia senza dover scendere per la strada, senza dover incontrare i fiorentini, quello fu il segnale della separazione della sovranità dal popolo e persino dall’aristocrazia imprenditoriale. Dal punto in cui stava in piedi Renzi, di fronte alla grande facciata, la piazza sale verso il palazzo. Affinché il popolo potesse soltanto ammirare da sotto insù la magnificenza del Potere e la sua messa in scena, la sua forza simbolica, o tutt’al più scrutare attraverso il portone il giardino dove passeggiavano dame e cavalieri. Palazzo Pitti è il prototipo che ispirò le regge d’Europa, quando i re decisero di separarsi con profusione di simboli dal loro popolo. Ai giardini di Pitti si ispirarono per il Palazzo del Lussemburgo, sulla riva sinistra, dove preferì trasferirsi la regina di Francia.
A Boboli si ispirarono per i giardini di Versailles, la massima messa in scena di un potere assoluto e separato, dove i re di Francia si trasferirono dopo essere rimasti per secoli al Louvre, a pochi passi dalla cattedrale e dalla prigione, circondati da botteghe e mercati. Pietro il Grande, che era il più matto di tutti, pur di stare lontano dai suoi russi costruì non una reggia ma una città-reggia, ancora oggi tra le più belle del mondo, su tra le paludi del Baltico.
Il popolo non ha sempre ragione, né allora né ora, ma non è sempre facile impedire che faccia di testa sua. Poco più di cento anni dopo l’inaugurazione di Versailles, al re di Francia tagliarono la testa. E un giorno d’ottobre del Diciassette dello scorso secolo i bolscevichi presero una ruspa e sfondarono il portone del Palazzo d’Inverno. I simboli hanno una loro cruda evidenza.
Palazzo Pitti non fu conquistato da forconi o cannoni, oggi è uno splendido museo, non proprio popolare, nonostante l’appello un po’ sovranista del suo direttore per farsi restituire un quadro che in pochi guarderebbero: la bellezza non salverà il mondo. Matteo Renzi, contro i populisti che minacciano di sfondare le porte della democrazia, avrebbe dovuto spiegare che quel magnifico palazzo, con la sua grandezza fuori scala rispetto alla città, è stato il simbolo, o meglio il risultato, di un declino politico. Declino di un modello costato anche lacrime e sangue (i Medici non avevano tutti i torti a non fidarsi a scendere in piazza, un po’ come Benjamin Griveaux a uscire dalla porta di servizio) in cui banchieri globalizzati, imprenditori che creavano mercati e gonfiavano i profitti e rappresentanze sociali sapevano confrontarsi in luoghi della politica aperti, senza nascondersi. Il tipo di palazzo che servirebbe oggi (non diciamo per forza la Leopolda, ma la reggia no: poi arrivano le ruspe).