Praga si ferma per Jan Palach
Silenzio e lacrime. Il giorno dei funerali di Palach, la città divenne immobile per un minuto. Il film che documenta un gesto di libertà
Il film si chiama Jan 69, ne è autore tale Stanislav Milota. Jan, col solo nome proprio, non ha bisogno di cognomi: non può che essere Palach, lo studente cecoslovacco di filosofia che nel gennaio di cinquant’anni fa si diede fuoco sulla piazza San Venceslao di Praga per protestare contro l’invasione sovietica; e infatti il film sta sul sito ceco a lui dedicato: janpalach.cz. In apertura solo due date, bianche su fondo nero: 16.1.1969, quella del giorno in cui Palach si immola; 19.1.1969, la morte, dopo tre giorni di agonia. A seguire un grande Jan con altre due date: 11.8.1948 e 19.1.1969: una vita di appena vent’anni. Stacco. Sulle cupe note del requiem di Janacek, le immagini in bianco e nero di piazza San Venceslao, lì dove il ragazzo è caduto a terra avvolto dalle fiamme, proprio sotto il monumento al santo fondatore della Cecoslovacchia. Ci sono candele, a centinaia, a migliaia; la macchina da presa le segue fino alla base del monumento, dove c’è soltanto una grande foto: quella di Palach. Una foto che negli otto minuti del documentario vedremo riprodotta mille volte sui muri. Davanti, due ragazzi immobili, una bandiera cecoslovacca in mano, copia forse involontaria dei due soldati con le armature scolpiti sotto il monumento. Lì è morto un eroe del nostro tempo.
La macchina da presa fa un giro e inizia a seguire una coda di folla: persone, persone, persone, una fila ordinata, nei loro cappotti invernali
L’eroismo di persone che hanno tenuto in casa per vent’anni filmati “pericolosi”. Le altre, poche ma preziose, immagini di quel giorno
La macchina da presa fa un giro e inizia a seguire una coda di folla: persone, persone, persone, in una fila ordinata di tre o quattro, nei loro cappotti invernali, in un silenzio spettrale, tesissimo, che le note iniziali del requiem sottolineano appena. Non c’è alcun indugio su quei volti praghesi sconvolti, i cappelli di lana a riparare dal freddo del gennaio ceco. Li si vede appena; quello che colpisce è che nessuno parla. Sono tutti lì, usciti dalle loro case per quell’omaggio collettivo, e nessuno ha voglia di proferire parola: testimoniano con la loro presenza, e tanto basta. E, incredibile, nello stato dittatoriale che tutto controlla, non si vede neppure un’uniforme. Ci sono momenti in cui anche i leader meno tolleranti sanno che non è il momento di farsi vedere: quel giorno era uno così.
Nuovo stacco. Ora la telecamera è all’interno di un’aula universitaria, totalmente vuota; una di quelle che Palach frequentava nei suoi corsi di filosofia, probabilmente. Da lì, dalla finestra, si vede il cortile interamente cosparso di fiori: una massa immensa di corone e mazzi deposti da autorità, professori, singoli cittadini. Sono i loro volti che ti colpiscono quando la macchina da presa arriva in basso, nel cortile, e li riprende da vicino. Se prima il dolore delle persone in coda nelle strade era composto, controllato, qui dentro il pianto è generale. Piangono alcune vecchie nerovestite, che tirano fuori i fazzoletti dalle maniche dei golfoni; piange un signore anziano, che un bastone bianco ha portato fino a lì, con il passo traballante e incerto. Un altro vecchio con la barba bianca si inginocchia davanti al feretro; è accompagnato dalla moglie tutta vestita di nero, piccoli occhiali e un foulard annodato sotto al collo; insieme paiono usciti da un film muto di Ejzenštejn, con quella stessa espressività che il cinema sonoro non ha più saputo proporre. Piangono anche i ragazzi, con l’espressione seria che non corrisponde alla loro età; ma ci sono momenti in cui fermare le lacrime è impossibile. Neanche i professori ci riescono; non perdono il loro aspetto accademico, rigido e solenne, ma dietro le lenti degli occhiali molti di loro hanno gli sguardi umidi.
Non sembra piangere, invece, la madre di Palach, inquadrata durante la cerimonia funebre. Non piange, ma è quasi peggio: perché ha i lineamenti totalmente distorti. Nel suo vestito nero, i capelli nerissimi sotto il velo, è come la protagonista di una tragedia greca: la Madre per antonomasia, con la iniziale maiuscola, che ha sopportato il dolore più grande e intollerabile. E’ lì, ovviamente in prima fila, sorretta al braccio destro dall’altro figlio – il marito è morto da qualche anno – ma non occorre aver studiato psicologia per saperla sola, orribilmente. Attorno a lei ci sono seicentomila persone, eppure potrebbe essere l’emblema stesso della solitudine. Così come la macchina da presa che, dopo avere ripreso ancora una volta la piazza gremita dovunque, se ne va per una strada bagnata, due lunghe file a destra e sinistra, mentre la musica sfuma lentamente e lo schermo si annerisce per lasciare, di nuovo, posto a una sola scritta bianca: Praha 25.1.1969. Il giorno, tristissimo, del funerale di Jan Palach. Che dolore; una pena viva, che entra nella pelle come se queste vicende fossero accadute oggi, ieri, ieri l’altro, e non cinquant’anni fa. Potenza delle immagini, le rare volte in cui sanno trasformarsi in emozione, tanto forti da potersi permettere di non utilizzare il sovrabbondante orpello delle parole, lasciando il solo commento al requiem.
E pensare che il filmato ci è giunto quasi per miracolo. Con l’inasprimento della dittatura in Cecoslovacchia, infatti, in quello stesso 1969 il regista e i due produttori, Yaromìr Kallista e Vlastimil Harnach, vengono licenziati dal loro studio cinematografico, colpevoli proprio di aver girato il documentario, che viene condannato alla distruzione. Ma sotto le peggiori dittature gli uomini mostrano insospettati atti di ribellione. Di nascosto da tutti, il vecchio direttore dello studio, Myrtil Frìda, salva la pellicola nascondendola in un posto sicuro che non rivela a nessuno, neppure ai tre autori; un segreto che porta con sé nella tomba. Così una volta caduta la dittatura, nel 1989, il regista Stanislav Milota non riesce a rintracciare il film, nonostante mesi di accurate ricerche. Devono passare altri tredici lunghissimi anni, fino al 2002, quando l’originale viene ritrovato per puro caso negli archivi.
Destino delle vicende coraggiose. Una storia simile a quella di un altro raro reperto, visibile sul sito ceco degli studi storici sui regimi totalitari. E’ un Super8 girato nel 1969 da uno studente diciottenne, Ladislav Gahler, appassionato di cinema fin dal liceo. “Mi piaceva filmare da quando avevo 15 o 16 anni, così al momento del funerale non ho avuto esitazioni e mi sono subito recato a Praga. Ricordo che il tempo era piuttosto brutto: nevicava, o forse pioveva. Non avevo troppa pellicola, perciò ciò che è qui è tutto quello che rimane”. Sono quasi quattro minuti girati soprattutto in piazza San Venceslao, attorno al monumento, ripreso dall’alto e dal basso. Ancora i fiori, ancora le candele, ancora i due ragazzi statuari con le bandiere. Nelle riprese amatoriali di Gahler si vede anche un cambio della guardia: uno studente portabandiera lascia il suo posto a un coetaneo. Questo spiega come, nonostante il freddo di gennaio, i ragazzi potessero rimanere così immobili, indifferenti alle folate di vento.
Le immagini di Gahler, totalmente silenziose, non sono troppo forti, sicuramente non come quelle dell’altro filmato; e tuttavia anche in questo caso destano impressione, perché ricordano comunque che, al di là del grande eroismo di Palach, ce n’è stato uno minore, ma di sicuro non poco rischioso; quello di persone come queste, che hanno tenuto in casa per vent’anni materiale che – se scoperto – le avrebbe portate immediatamente in prigione. Penso alla citatissima frase di Brecht “sfortunato il paese che ha bisogno di eroi”. Sfortunata la Cecoslovacchia, che nel Novecento ne ha avuto bisogno così tante volte. Contro i nazisti, contro i comunisti, povero paese di grande tradizione e troppo minuta consistenza per poter resistere ai carri armati stranieri.
Il filmato ci è giunto quasi per miracolo. Il produttore lo nascose in un luogo sicuro, morì senza dire dove. Ritrovato per caso nel 2002
C’era anche un giovane reporter francese, futuro premio Pulitzer, Raymond Depardon: è suo un altro breve film di 11 minuti
Sul web c’è altro materiale video d’epoca, in generale assai meno forte, e quasi sempre in lingua ceca, incomprensibile nel parlato come nello scritto. Per fortuna in quella piazza, confuso tra la folla, in quel momento c’è anche qualche straniero. Per esempio un ventiseienne di talento, destinato a grande fama in campo fotografico e cinematografico: Raymond Depardon, che vincerà un Pulitzer e sarà membro della mitica agenzia Magnum. In quell’umido gennaio è giunto a Praga passando da Norimberga. Su internet il suo filmato, un cortometraggio di 11 minuti, non è facilmente scaricabile, ma c’è una sua preziosa testimonianza: “Avevo due macchine, non so più quali, una Arriflex, credo, ma so che ho girato. In piazza San Venceslao, per un minuto, tutti si sono fermati. Era impressionante. Avevo bobine di due o tre minuti, ho fatto qualche ripresa fissa e mi ricordo di aver pensato all’Anno scorso a Marienbad, perché le persone si erano fermate sulle scale del metro, come statue, non si muovevano più, ed è durato un minuto vero, una cosa che in Francia sarebbe stata impensabile, un minuto vero in cui si sentiva tutto il peso dell’oppressione del sistema… essere là e poter filmare quel primo minuto di silenzio è stato un po’ un miracolo”.
A distanza di mezzo secolo, il materiale occidentale comunque scarseggia. Su YouTube l’Archivio del movimento operaio ha caricato un video di quattro minuti: immagini anche belle, ma totalmente mute, non così espressive. C’è qualcosa in inglese sulla Bbc: un file sonoro dove si intervistano due ragazzi che hanno partecipato all’organizzazione del funerale. In video, invece, un filmato di fine gennaio, con audio un po’ enfatico, ma immagini in parte inedite. Dapprima si vede il carro funebre procedere lentissimo in mezzo a una folla che riempie strade e marciapiedi, seguito da tutto il corpo accademico in alta uniforme, e ancora la madre con il suo volto devastato, tenuta in piedi ai due lati: a sinistra dalla nuora, a destra dal figlio maggiore, giovane uomo un po’ stempiato, con il cappello in mano. Uno stacco e siamo al cimitero. C’è un prete, uno solo, abbastanza giovane, in piedi, il libro sacro tra le mani alzate davanti al corpo; dalla bocca gli esce uno sbuffo di fiato condensato. Questa volta la madre piange: si passa più volte il fazzoletto bianco davanti al naso sotto la veletta. Sono tutte immagini in bianco e nero, quasi a voler sottolineare il distacco temporale che ci separa da quelle ideologie; per la verità c’è anche un video a colori, di Itn, di un paio di minuti; ma – tra lo sbiadimento naturale delle tinte dell’epoca, il cielo plumbeo e i vestiti in prevalenza neri – la differenza non è molta: perfino le corone di fiori sembrano scure, anche nel technicolor. Del resto, senza partecipare ad alcun funerale, è scuro, scurissimo, l’abito dello speaker del telegiornale italiano, che il giorno 17, recita serio la notizia, sbagliando anche il cognome del ragazzo, aggiungendogli la desinenza in a, che in lingua ceca identifica il genitivo: “Tutti i giornali di Praga dedicano oggi grande rilievo al tragico episodio dello studente Jan Palacha, che ieri si è appiccato il fuoco dopo essersi cosparso di benzina. Le sue condizioni restano gravissime”; 17 secondi senza immagini, arrivederci e grazie.
Meglio tornare alla lingua ceca. Un altro filmato coevo presente sul sito di Palach si chiama Tryzna, cioè “tormento”; l’ha girato un certo Dešan Trancik e racconta l’evoluzione della reazione popolare a Praga e Bratislava alla notizia della morte del ragazzo. Anche in questo caso il ritmo è quello della grande cinematografia dell’est, con una musica incalzante, potente, a marcare l’andamento della tragedia. Ma quella che oggi colpisce più di tutte è un’immagine quasi casuale, presa a Bratislava tra i ragazzi che il giorno successivo alla morte di Palach danno sfogo al dolore. Tra i loro volti pallidi, silenziosi, agghiacciati, a un certo momento fa capolino un grande foglio da disegno appeso alle bell’e meglio su una delle finestre dell’università. In grandi caratteri, con una grafia sbilenca, una mano anonima ha scritto un messaggio semplice e preciso: Jan Hus, Jan Palach, Jan… A leggerlo oggi, fa un effetto di profezia che colpisce come un pugno in faccia; perché effettivamente meno di un mese dopo un altro Jan, Jan Zajic, appena diciottenne, andrà in piazza San Venceslao per suicidarsi nello stesso modo, terzo in lista nel lugubre elenco.