La politica è cambiata, così anche il suo dresscode
Le "felpe parlanti" di Salvini e l'abbigliamento casual di Ocasio-Cortez. Quanta nostalgia per il sobrio guardaroba della Prima Repubblica
Roma. Un giorno rimpiangeranno il tre bottoni sartoriale, magari con forfora. Il guardaroba dei politici, un tempo monotono, grigio-nero o al massimo blu, mono o doppiopetto, è da tempo passato di moda. I politici di ogni latitudine oggi vivono la lunga liberazione sartoriale. Lontani gli anni della giacca e cravatta, adesso chiunque fa come gli pare, con risultati e “tendenze” molto disparate. Anche in Italia, naturalmente, come si vede dalla triade di governo. Il completino sartoriale da prima comunione di Di Maio, il parka da viaggiatore di Di Battista, il “giumbotto” della Polizia di Salvini.
La deregulation della grisaglia è antica: già alla fine della Prima Repubblica sfumarono i doppiopetti caraceniani alla Andreotti, via la severità istituzionale, almeno dagli anni Novanta. Così è un ricordo lontanissimo il caso di scuola di Bettino Craxi che andò a giurare al Quirinale per la prima volta nel 1979, in jeans, e venne respinto da Sandro Pertini presidente della Repubblica. Oggi siamo ancora in piena liberazione del corpo del politico, simile a quella della donna col tailleur destrutturato, opera di Giorgio Armani negli anni Ottanta (però non c’è nessuno stilista a guidare una rivoluzione spontanea: ognuno interpreta il suo ruolo come può o sa). C’è lo smart-business-casual di Roberto Fico, blazer senza cravatta, ma altri invece si ispirano soprattutto, come dicono i più fondamentali stilisti, allo streetwear e al tempo libero. E’ fenomeno globale, non solamente italiano.
Anche l’infornata di parlamentari seguita alle elezioni di medio termine negli Stati Uniti ha visto le nuove deputate democratiche in mise molto rappresentative del nuovo Zeitgeist. Talune si son presentate in camicetta e pantaloni (senza il consueto tailleur), come la più giovane rappresentante della storia americana, Alexandria Ocasio-Cortez. La deputata del Kansas Sharice Davids (esempio della diversity statunitense 2019, discendente dagli indiani d’America, lesbica, campionessa d’arti marziali) è apparsa invece in maglietta senza maniche, letteralmente mostrando i muscoli. E la collega Ayanna Pressley, la prima afroamericana mai eletta al Congresso, ha rimpiazzato il prevedibile filo di perle con dei fiori al collo. Insomma, ognuno fa come gli pare. Le donne generalmente sono più libere, abituate anche a maggior fantasia nel ciclo ufficio/tempo libero.
Gli uomini invece attingono soprattutto a due repertori, quello militare e quello regressivo da muretto. Spesso attuando regressioni o scimmiottando esempi inarrivabili. Chi gioca al soldatino sognerà i grandi eroi americani, presidenti o mancati presidenti come McCain, splendidi nelle loro uniformi giovanili, che avevano servito il paese in guerra e poi all’estremo saluto son degni finalmente di ricevere saluti militari e salve di cannone.
Talvolta i politici sono stati davvero militari: qui, il più fantasioso era naturalmente il colonnello Gheddafi, che introdusse un uso virtuoso di medagliette e (anche più innovativo) di ritratti d’eroi africani. Il truce neopresidente del Brasile, Jair Bolsonaro, pur avendo (o proprio in quanto avendo) un passato militare di cui va molto orgoglioso, non si sogna finora di indossare uniformi. In campagna elettorale però si è spesso presentato con una curiosa veste simil militare, un giaccone verde tipo Alberto Sordi venditore d’armi in “Finché c’è guerra c’è speranza”.
L’uniforme e in generale il travestimento piacciono a tutti, sono un pezzo forte delle monarchie che giocano con le mostrine, i mantelli, gli alamari. Diversi colori per ogni battaglione, che festa le cerimonie. Chi non ha un Re si rifà con i dittatori: così il presidente venezuelano Maduro alterna la tuta colorata all’uniforme militare (pur non essendo un soldato). Il Venezuela del resto ha fatto scuola come politic wear. Il predecessore Chavez indossava volentieri la tuta tipo Gianni Boncompagni. Maduro ha perfezionato la tecnica: la fashion week venezuelana prevede la tuta anche in occasione di incontri politici importanti, internazionali, bi e trilaterali, e l’uniforme militare per i momenti che ritiene più opportuni (per il matrimonio con la signora Cilia Flores invece ha messo un camicione candido, la tradizionale guayabera). Un altro appassionato di travestitismi è Kim Jong-un: il dittatore coreano alterna sapientemente un business attire come nel discorso di fine anno, travestito da “Una poltrona per due”, ai completi alla mao-tse-tung, ai cappotti fino ai piedi (talvolta con cappello).
In regimi democratici, il massimo si è raggiunto con la tuta (ma di cachemire, blu), invenzione di un precursore del political wear come Silvio Berlusconi (nell’innovativo abbinamento col blazer, e le Hogan). Poi è venuto Salvini, il più trasformista: felpe “parlanti”, coi più svariati messaggi, prima. Poi, quasi sempre polo o felpa della polizia (talvolta dei Vigili del Fuoco). Di Maio a un certo punto si è ingarellato pure lui, togliendosi il completino e sfoderando quella della Protezione civile, subito rimproverato da Guido Bertolaso che ha rivendicato l’invenzione di quel logo (tipo guerra di stilisti). Le scritte appassionano: i politici sembrano talmente fragili da aver bisogno del marchio, e della scritta, come gli adolescenti che cercano il consenso (dopo un po’, però, i marchi stufano, e si ha voglia di un ritorno alla sobrietà, anche nelle democrazie più scalcagnate, vabbè).