Ma vale la pena laurearsi? Il rapporto fra investimento e spendibilità
Per non pensarla alla Briatore ci vogliono i dati. Eccoli
In linea teorica, se si è donne conviene studiare matematica a Oxford mentre, se maschi, conviene studiare economia a Bristol; guai invece ai ragazzi che studiano filosofia nel Sussex e alle ragazze che studiano informatica a Westminster. Così ammonisce – non senza ironia – la Bbc commentando i risultati di un’indagine dell’Institute of Fiscal Studies sullo status dei laureati britannici ventinovenni. I risultati hanno destato scalpore portando a chiedersi se in fin dei conti andare all’università convenga davvero. Prenderla dall’angolazione “rich kid” di Flavio Briatore, che ha affermato che non manderà il figlio all’università, non gli serve, è però fuorviante. Il tema è più sfaccettato. Sempre in linea teorica, infatti, la laurea conviene più alle donne che agli uomini: le prime guadagnano il 28 per cento in più delle pari età senza laurea mentre i secondi solo l’8; ma la differenza, più che da salari astronomici, dipende dal maggiore precariato e dalla pessima retribuzione delle donne non qualificate. Poco sorprendentemente, il vantaggio economico maggiore si ottiene laureandosi in medicina, economia e matematica; studiare arte, letteratura e filosofia fa guadagnare meno di chi non è andato all’università.
Sono tendenze che però vanno considerate entro un più ampio contesto di messa in dubbio del valore dello studio universitario. Non nel senso che oggigiorno il potere politico sembra detenuto da chi non tiene in gran conto le pergamene – la Brexit è stata votata da una maggioranza ignara delle ricadute sulla ricerca, Trump sbaglia lo spelling su Twitter, il governo italiano è (per dirla con Paolo Virzì) la rivincita di quelli che andavano male a scuola. Il punto è piuttosto il rapporto fra investimento e spendibilità. Una sempre maggiore diffusione degli studi ha globalmente portato a un incremento delle rette senza che ciò comportasse un ritorno nei successivi stipendi. Ciò diventa particolarmente grave in casi come la Gran Bretagna, dove lo studente paga le rette contraendo un debito d’onore (50.000 sterline in media) che dovrebbe ripagare con una percentuale sul salario.
L’Economist ha di recente posto la questione senza pregiudizi, presentando dati significativi. In Corea del sud, ad esempio, da inizio millennio il numero dei neoimpiegati dotati di laurea è raddoppiato (ora è il 70 per cento) ma in compenso metà dei disoccupati è laureata. Negli Usa gli studenti pagano mediamente 30.000 dollari annui in rette mentre i coetanei che lavorano ne guadagnano 60.000. Intanto l’incremento delle lauree le rende requisito per professioni che non le richiedevano: in mezzo secolo si è passati da un 16 a un 70 per cento di infermiere laureate senza che ne sia conseguito un sostanziale ritocco degli stipendi. “Al momento i giovani ottengono pessimi servizi da lauree costose; è tempo di mutare drasticamente approccio”, conclude l’Economist. Concorda il Financial Times, secondo cui andare all’università ha garantito al 33% dei laureati maschi britannici guadagni inferiori o pari ai coetanei che non hanno studiato; tanto valeva evitare. Bryan Caplan, autore di “The case against education” (Princeton University Press), ha argomentato che l’attuale sistema universitario richiede spese enormi per insegnare poche cose a troppe persone e che “l’iscrizione all’università è un mero atto di perseveranza volto a conformarsi a una cultura prevalente” secondo cui lo studio ha valore di per sé. Bisogna distinguere, ovviamente, fra il vantarsi di aver frequentato l’università della vita e il fare questi conti della serva: se lo studio ha un valore, si chiede Caplan, perché non viene riconosciuto in busta paga? In fondo è passato poco tempo da quando Obama diceva che far laureare i figli era “l’imperativo economico” delle famiglie americane. Oggi la reazione ai dati IFS cerca di collocare tale valore su un piano metafisico. Il presidente di Universities UK, Alistair Jarvis, argomenta ad esempio che il vantaggio dell’università non sta nel denaro ma nel “costruire reti, incrementare l’autostima, provare il piacere di apprendere”; posizione velleitaria simile a quella di Martha Nussbaum, secondo la quale l’università non deve trasmettere competenze ma “educare l’immaginazione”. Ha certamente ragione il Guardian quando dice che il mero computo dei salari non dice nulla della qualità di insegnamento e ricerca universitari né tiene conto degli imprevedibili sviluppi futuri dell’economia. Se non che il New York Times scrive che ormai l’istruzione dà vantaggi professionali solo a chi proviene da classi sociali già avvantaggiate; il Washington Post, pur critico verso Caplan, ammette che maggiore è il ricavo che le università ottengono dalle rette, minore sarà la loro attenzione alla selezione dei talenti rispetto all’arruolamento indiscriminato di matricole. Un dato significativo dell’indagine IFS infatti è questo: 67 università britanniche fanno guadagnare ai propri laureati cifre inferiori, pari o impercettibilmente superiori ai non laureati. Ciò significa che non vale la pena di pagare la retta per frequentarle e che, di fatto, queste università sono di troppo. Vuol dire anche che, paradossalmente, attribuire allo studio un valore intrinseco da estendere a tutti finisce per diluirlo al punto da non beneficiare più nessuno.