I manager di Verdi
Dalla Scala al San Carlo, grandi spettacoli e conti a posto, nonostante i tagli alla cultura. Un successo che premia il lavoro dei sovrintendenti
Diceva il grande impresario ottocentesco Domenico Barbaja, mettendo in scena in tutta Europa opere italiane comprensive di balletto particolarmente ingrate a Beethoven, che “il pubblico deve essere intrattenuto” e fatto divertire. Naturalmente non sapeva a quali protagonismi a fini mediatici e a quante compiacenze per assicurarselo avrebbero dovuto sottoporsi due secoli dopo i suoi successori più famosi e di maggiore successo artistico ed economico, Carlo Fuortes al Teatro Costanzi e Alexander Pereira alla Scala, ma anche Rosanna Purchia al San Carlo di Napoli che è la sua erede più diretta, e Barbara Minghetti al Regio di Parma, al fine di ovviare a leggi finanziarie che tagliano le risorse per la cultura di oltre 25 milioni o al recente decreto dignità che, impedendo l’assunzione ripetuta ma a scadenza di personale esperto, cioè il profilo naturale di un professionista del teatro, fanno saltare interi balletti. Ma dopotutto non è che nella scena teatrale del Lombardo-Veneto le cose andassero così bene. Scartabellando fra vecchi appunti e fotocopie, ho trovato i bilanci 1738-1740 di alcune imprese attive presso il Teatro Regio Ducale di Milano, l’antesignano del Piermarini andato a fuoco in via definitiva un lunedì sera di ventisei anni dopo; per tutti e tre gli anni considerati, le entrate bastano appena a pagare il “Real Collegio delle Vergini Spagnuole” istituito alla fine del Cinquecento per il fitto dei locali (21.700 lire) e un paio di nuovi allestimenti, ma il disavanzo fra entrate è uscite è costante e ragguardevole: circa diecimila, ventiduemila e ventimila lire. L’affitto “dei giuochi”, cioè dei locali per il gioco d’azzardo che era inframmezzo di ristoro necessario fra una cavatina del tenore e l’altra, e delle botteghe affacciate sui ridotti per la vendita di libretti di sala, ventagli e cibarie equivale, anzi rappresenta il doppio dell’incasso procurato dai biglietti (circa 40 mila lire contro 19 mila nel 1738) e dimostra quello che, in fondo, abbiamo sempre saputo: non è mai esistita un’età dell’oro in cui il pubblico pagante ha affittato la sua brava sedia in platea per ascoltare in religioso silenzio la primadonna Marianna Marini (2.850 lire) intonare le arie dell’“Ezio” del Metastasio, e i “generosi sovvenzionatori”, cioè gli sponsor, non hanno mai coperto nemmeno i costi delle candele. Per far sì che ogni sera, o anche ogni settimana, si alzasse il sipario, si è sempre reso necessario l’intervento del re di Napoli, dell’imperatrice Maria Teresa, delle associazioni di cittadini. In Italia come all’estero dove, peraltro, basta vedere quali cifre metta sul piatto la Francia di Macron e dei gilet jaunes per i suoi teatri e perfino per “les initiatives culturelles et artistiques des amateurs”, cioè dei dilettanti allo sbaraglio (per la cronaca, il ministero della Cultura francese ha lavorato su un bilancio 2018 pari a 10 miliardi di euro che, traduco dalla presentazione del ministro Françoise Nyssen, “sono l’espressione della fiducia del ministero e dei suoi agenti nel ruolo giocato dalla cultura per l’evoluzione del paese”: e poi ci domandiamo perché perfino i gilet jaunes abbiano seccamente declinato le profferte di Di Maio).
Per far sì che ogni sera si alzasse il sipario, si è sempre reso necessario l’intervento del re di Napoli o dell’imperatrice Maria Teresa
Che i tre sovrintendenti Fuortes, Pereira e Minghetti portino da un paio di anni a questa parte in approvazione bilanci sostanzialmente o anche effettivamente in pareggio, visto che il Regio ha addirittura un piccolo utile, sostenuto da un aumento delle sponsorizzazioni del 43 per cento, è il risultato delle doti manageriali e imprenditoriali dei suoi sovrintendenti, e dell’aura di successo e di carattere di cui hanno saputo ammantarsi, più ancora che della stretta gestionale e finanziaria a cui sono stati sottoposti dagli ultimi governi per continuare a garantirsi quelle poche, e sempre minori, sovvenzioni. Oggi come allora, anzi più di allora per via del potere ammaliante dei social media e della loro espressione più vanitosa, Instagram (Barbaja l’avrebbe adorato) a teatro si va per divertirsi, per vedere e per farsi vedere , e dunque la leadership forte e vistosa dei sovrintendenti e dei direttori artistici è elemento integrante del processo che, attraverso la riconoscibilità e la successiva attribuzione di fiducia, porta alla sottoscrizione di un abbonamento, di una sponsorizzazione o al semplice acquisto di un biglietto.
L’impegno di Isaia a Napoli, l’ingresso di Allianz a Milano. Gli stranieri e le nuove serate di settembre-novembre al Piermarini
“Avere per direttore un uomo di gusto, passare agli attori un salario che li togliesse dalla miseria (…) regalarlo ora in denaro, ora con un bel vestito”, scriveva Pietro Verri al fratello Alessandro dopo una Prima scaligera che probabilmente non gli era piaciuta, auspicando che un nuovo principe diventasse impresario, e che impiegasse magari sulle scene figli “di famiglia, di spirito e colti, ma sventati e poveri”, prefigurando insomma i palcoscenici popolati di celebrities di oggi. Per vendere biglietti ci vogliono personalità, in scena e fuori. Andate alla Scala e ogni sera troverete Pereira ad attendervi come un padrone di casa nel foyer, il focolare, nomen omen, e durante lo spettacolo sarà sempre seduto, ben visibile, nel palco di proscenio, a seguire con le labbra il canto, e un po’ vi si stringerà il cuore pensando alla sua carriera di cantante mancato perché noi italiani siamo romantici e l’aura del successo venato di segrete malinconie ci conquista più della spavalderia. Allo stesso modo, noi peninsulari sempre sedotti dalle tempre d’acciaio, quattro anni fa abbiamo applaudito la fermezza di Fuortes con gli orchestrali che avevano fatto fuggire Riccardo Muti e l’abile spariglio con cui ha fatto rientrare gli scioperi e ottenuto un accordo sindacale che è un capolavoro gestionale giocando sul registro affettivo, un po’ e sempre come il Barbaja quando, per mettere a tacere Vincenzo Bellini e il tenore Giovanni Battista Rubini che si guardavano in cagnesco sulla carrozza, questioni di donne ovviamente, li invitò perentorio a far “suonare” i loro “nomi insieme per onore dell’arte”. L’appello alla nobiltà d’animo e al bene supremo dell’arte è assolutamente fondamentale quando si voglia portare a casa un risultato economico, vedi il caso del San Carlo che, giocando sulle attività museali, sulla storia, sui nuovi allestimenti e sull’allure che la città continua ad avere presso il pubblico internazionale, ha attirato uno sponsor a sua volta locale e internazionale come Isaia, che ai colori delle sale e del teatro, e alle linee neoclassiche della facciata si è ispirato per la sua prima collezione donna, sicura e lineare, presentata pochi giorni fa a Milano, a pochi passi dalla Scala che ormai gode dell’appoggio di tutta l’imprenditoria cittadina e anche internazionale: “Non dimentichiamoci mai che il San Carlo è il più antico teatro d’opera d’Europa e del mondo in attività”, sottolinea Gianluca Isaia, che alle tradizioni e al valore della storia tiene anche per ragioni di famiglia e, dunque, imprenditoriali.
Nel frattempo, la Scala raggiunge altri primati. Con l’ingresso di Allianz fra i soci fondatori, meno di un anno fa, il teatro milanese è diventato il secondo al mondo, dopo il Metropolitan, per capacità di attrazione nei confronti dei privati. Nel 2017 ha chiuso in pareggio, con un fatturato di 126 milioni, di cui un quinto derivato dalle sponsorizzazioni di istituzioni e privati, in progressivo aumento. Il marchio Scala è tornato a fare aggio come ai tempi delle direzioni forti di Grassi e Ghiringhelli, e associarvi il proprio aiuta. A parte Prada che è un’istituzione milanese e che occupa da tempo immemorabile la quarta di copertina dei programmi di sala, la sera della Prima dell’“Attila” (un grande successo nonostante o forse grazie all’impianto vetero-pop-televisivo di scene e costumi) era costellata di ospiti straniere dei Dolce & Gabbana, reduci dal disastro di Shanghai, abbigliate in un trionfo di vestitoni-souvenir con locandine scaligere stampate che non avrebbero saputo decrittare, eppure ben felici di trovarsi in un teatro che, come la loro gonnellona a ruota, rappresentava un rassicurante brand.
Bilanci in pareggio. Il Regio di Parma ha addirittura un piccolo utile, sostenuto da un aumento delle sponsorizzazioni del 43 per cento
Già, gli stranieri: guidano la classifica delle vendite online e rappresentano circa il 25 per cento degli spettatori totali, a loro volta in crescita grazie al valore del marchio-Scala e alle tournée che, intoccate ma anzi rafforzate da Pereira, gli hanno permesso di mettere in pratica uno di quei giochetti di cui, forse, ha affinato l’esercizio ai tempi in cui era venditore alla Olivetti (Carlo De Benedetti e Franco Tatò non si erano mai visti così spesso alla Scala come in questi anni) e che rappresentano la sua vera rivoluzione: la programmazione autunnale fra il rientro dalla pausa estiva e la Prima del 7 dicembre con titoli contemporanei interpretati dai professori dell’Accademia oppure opere barocche in rappresentazione filologica, suonate cioè da orchestre di venti elementi al massimo. Mentre il grosso dell’orchestra della Scala si esibisce, per esempio, in Giappone, opportunità a cui tiene moltissimo anche per le indennità di trasferta, una sua piccola compagine allieta dunque le serate dei vacanzieri di ritorno e dei modaioli in arrivo da New York, Parigi e Pechino per la Fashion Week. Fino a tutto l’ultimo decennio, la Scala sembrava regolata sugli usi e i costumi del dopoguerra, quando la scuola iniziava a ottobre, le vacanze si chiamavano villeggiatura e a Merano o a Stresa le Settimane musicali si concludevano con le piogge d’autunno. Adesso che le recite scaligere del periodo settembre-novembre sono passate da nove a quaranta e che le poltroncine rosse accolgono i convegnisti dell’Assolombarda e gli ospiti del Green Carpet Fashion Award, la Scala ha perso l’aura sacrale e un po’ querula acquisita negli ultimi cinquant’anni per riacquisire quella grandioso-affettuosa, da salotto di casa, che aveva portato i milanesi a comprare il biglietto per il grande concerto di riapertura del 1946 diretto da Arturo Toscanini vivendo ancora da sfollati, come ricordava lo storico dell’arte Stefano Zuffi l’altra sera, presentando con James Bradburne la nuova Brera all’associazione degli Amici.
Quattro anni fa a Roma, la fermezza di Fuortes con gli orchestrali che avevano fatto fuggire Riccardo Muti
I tempi cambiano, ma le abilità imprenditoriali e la leadership sono sempre le stesse. Il vero guaio per i teatri italiani è di averlo dimenticato per lungo tempo, nell’idea che i fondi pubblici, ancorché annuali e spesso in ritardo, sarebbero arrivati comunque. Adesso che il governo della decrescita va palesandosi nella sua prevedibile trasformazione di un popolo litigioso ma attivo in una coltivazione intensiva di couch potatoes, di patatone da divano in attesa della mancetta mensile da impiegare nell’acquisto di generi di consolazione come cibo e sigarette, non a caso le uniche due voci di consumo in crescita nell’ultimo semestre, è ovvio che le azioni da intraprendere per tenere in vita un settore geneticamente debole debbano essere non solo numerose, ma anche strategicamente ben definite. Un esempio di grande confusione, in recupero solo negli ultimi anni, è quella del Maggio Musicale Fiorentino, partito come esperimento festoso negli anni del fascismo e finito per perdersi fra rappresentazioni turistiche e temporalità così poco definita da richiedere una spiegazione per il pubblico ignorante della tradizione di calendimaggio. All’opposto, inclusiva e dunque moderna, lavora Barbara Minghetti, titolare delle attività del Conservatorio Arrigo Boito di Parma e unica italiana a sedere nel board. Ne parlano benissimo i “suoi” registi, fra cui Jacopo Spirei che, dopo aver guardato per lunghi anni da Oslo, da Salisburgo e da Karlsruhe la scena operistica italiana, sta iniziando a lavorare ad allestimenti per il San Carlo e lo Sferisterio, e ha appena messo in scena un applauditissimo “Rinaldo” al teatro Sociale di Como dove la Minghetti ha debuttato, anni fa, con le sue idee di promozione estrema e irresistibile, sulla scia del famoso dualismo Maometto-montagna. Non vorresti andare all’opera? Lei ti ci conduce per mano. Qualche anno fa ha lanciato Opera Domani, un progetto di educazione musicale e di opera partecipata per le scuole, che prevede la realizzazione di opere liriche, adattate al pubblico giovane, precedute da percorsi didattici, un modello imitato ovunque. Da qualche anno ha ampliato la proposta trasformandola in Opera Education, piattaforma italiana di educazione musicale che ora è un modello di riferimento europeo per la formazione di bambini e ragazzi in ambito operistico, e ormai quindici anni fa ha ideato Opera kids, una serie di iniziative rivolte ai bambini, quindi Pocket Opera, l’opera tascabile, in formato ridotto, per portare il melodramma anche nei piccoli centri.
Funziona tutto, ovunque, un po’ meno nella scuola italiana dove, come noto, l’educazione musicale non è un percorso obbligato e lo studio del pianoforte e del canto un’attività di risulta, certamente elitaria, non titolata al sostegno da parte del governo del cambiamento. Sarà per quello che, quando incontriamo in tram un ragazzino con la custodia del violino sulla schiena, proviamo subito nei suoi confronti un moto di simpatia.