Perché la Generazione Z non poteva avere un biografo migliore di Netflix
Da “Sex education” a “You”, due straordinari successi
"L’omofobia fa così 2008, Adam, è passata di moda", dice Anwar a Adam, dopo che quest’ultimo aveva insultato Eric. Anwar e Eric sono gli unici due omosessuali dichiarati del Moordale Secondary School, il liceo dell’omonimo (e inventato) paese da qualche parte nelle campagne britanniche. I tre personaggi appena citati sono solo alcuni dei protagonisti di “Sex Education”, la nuova teen comedy Netflix racconta l’approccio al sesso di una intera generazione attraverso le improvvisate consulenze di Otis, figlio geek di una sessuologa di successo, Jean. La generazione a cui fa riferimento lo show, esordio alla scrittura di Laurie Nunn, è certamente la Generazione Z; ma cos’è la Generazione Z?
La classificazione – originariamente nata a fini commerciali, come pure successo per la Gen X e i Millennial – deriva da un report di Sparks & Honey, che identificò i nati tra il 1995 e il 2006 come appartenenti a questa categoria, che va ben oltre la semplice dipendenza da Facebook e Instagram. Ad esempio, la Z è stata la prima generazione che ha rivalutato il concetto di genere, ha reso la sessualità più fluida, salvo poi finire per fare meno sesso di tutte le altre. Uno studio del 2017 degli psicologi Jean Twenge e Heejung Park ha rivelato che la progressiva diminuzione dell’attività sessuale (così come pure altre attività “adulte”) negli ultimi 40 anni ha toccato il suo punto più basso con la Generazione Z. E questo nonostante l’educazione e le nozioni sessuali sono più diffuse e disponibili.
“Sex Education” parte da questa apparente contraddizione (“tutti fanno sesso, ma nessuno sa farlo davvero”, dice Maeve a Otis per convincerlo a mettere in piedi la sua “Clinica del Sesso”), per raccontare una generazione che ci è sempre stata presentata come frivola e pigra, e in realtà è più spaventata e sola. Attraverso il sesso, una comicità sempre sopra le righe ma mai volgare, i protagonisti di “Sex Education” mostrano problemi reali e soprattutto moderni: l’aborto, lo slutshaming (subito da Maeve, già ribattezzata la Margot Robbie inglese), i rapporti genitoriali, l’accettazione di se stessi, le relazioni interpersonali. Non sempre semplici e immediate per la Gen Z. In un pezzo uscito nel 2017 sull’Atlantic, sempre Twenge scrive: “I livelli di depressione giovanile e di suicidio sono impennati dal 2011. La Generazione Z è sull’orlo della peggior crisi di nervi in decenni. E gran parte di questo deterioramento è rintracciabile nei loro telefoni”.
Da un telefono – e dalle infinite possibilità che nasconde – parte (e, spoiler, finisce) la paradossale storia di stalking e amore tra Joe e Beck in “You”, show Lifetime del 2018 che ha trovato il successo solo quest’anno, quando è stata trasmessa da Netflix. Joe è lo store manager (definizione da Gen Z) di una libreria a Manhattan, mentre Beck è un’aspirante scrittrice che frequenta un master in scrittura creativa (o giù di lì). L’ossessione sviluppata da Joe per Beck lo porta a commettere una serie di omicidi grotteschi e a scoprire aspetti della vita privata di Beck – una su tutte: la relazione di dipendenza/amicizia con Peach Salinger, ipotetica erede di JD Salinger, un rapporto non proprio sano con il sesso, la solitudine, una realtà costruita superiore a quella esistente – in pratica gli stessi tratti della Generazione Z, solo più cupi e certamente meno simpatici. “You” (creata da Greg Berlanti, quello di “Dawson Creek”, insieme, a Sera Gamble), racconta l’incubo perfetto di ogni appartenente alla Gen Z: lo stalking sui social. “L’ho cancellato quando mi sono accorta che stavo stalkerando gli altri un po’ troppo. Sono inoltre consapevole di avere una dipendenza bordeline da internet. Non appena provo un’emozione, vado su Facebook, Instagram o Twitter e posto una foto o uno status”, ha detto la scrittrice Ali Segel quando interrogata da i-D sul perché molti membri (famosi) della Gen Z si stessero cancellando dai social. In “You” questa “dipendenza” viene utilizzata da Joe non solo per scoprire tutto quello che gli serve sulle sue vittime, ma anche per metterne in scena la dipartita.
Nonostante le differenze di età dei protagonisti (sia nella realtà sia nella finzione i personaggi di “You” sono più adulti rispetto a quelli di “Sex Education”) entrambi i prodotti sembrano essere pensati per parlare della Gen Z più che “alla” Gen Z. Non c’è nessuna intenzione pedagogica in “Sex Education”, così come nessuna particolare denuncia alla morbosità dei social in “You”. Sono due show che attraverso alcuni argomenti classici della contemporaneità – i richiami alla cultura pop, le parodie del veganesimo e del bio a tutti i costi, i cliché letterari – esasperano i tratti di una generazione per provare a restituirne un ritratto imperfetto, e quindi accattivante. Non solo. Entrambe le serie provano a riscrivere i rapporti di forza tra sessi, costringendoci a ripensare alcuni atteggiamenti quotidiani. Un altro tratto della “nuova” generazione che potrebbe avere un ulteriore comune denominatore: la sua rappresentazione su Netflix. Negli ultimi anni infatti, dal boom di “13” passando per “Atypical” o “The End of the Fu***ing World”, il colosso americano sembra essersi specializzato nel genere, così tanto da essere diventato il medium preferito per chi cerca storie di questo tipo, e l’esempio di “You” è emblematico. Lo show infatti non è originale Netflix (ma lo sarà dalla prossima stagione), e come dimostrano anche i dati di Google Trends fino a quando non è stato caricato online in pochi parevano essersi accorti della sua esistenza. I membri della Generazione Z escono di meno, si ubriacano di meno, e si drogano di meno (questo almeno secondo un recente studio della BPM Public Health) e probabilmente stanno su Netflix, a guardare show che cercano di raccontarli meglio di quanto loro stessi saprebbero fare.