Le foto ci rendono migliori?
Il lungo viaggio dell’immagine di Alan Kurdi (e altre come quella) fino a diventare simbolo. Fotogiornalismo, politica e impegno civile. Ma funziona davvero, nell’epoca della cattiveria digitale? Imago pietatis, un libro
Quando la mattina del 3 settembre 2015 tutti i giornali italiani e internazionali pubblicarono in prima pagina una fotografia che aveva inondato i media digitali già dalla giornata precedente – la foto di un bambino di tre anni riverso bocconi sulla battigia di una spiaggia dell’Egeo, Alan Kurdi si chiamava, ma in un primo tempo il nome attribuito per errore fu Aylan – ci furono commozione, indignazione e anche qualche arricciare di naso. Ma soltanto i più distratti non si avvidero che quell’immagine aveva una qualità speciale, che andava oltre il suo contenuto, e che sarebbe diventata un simbolo, l’icona globale della guerra in Siria e di un intero periodo storico che non si è ancora concluso: quello delle stragi di migranti nel Mediterraneo. Sarebbe diventata la bambina del Napalm della guerra dei profughi, una sorta di Guernica digitale che avrebbe interrogato anche gli artisti. Non per la rarità del soggetto (anzi). Non per motivi estetici, anche se la questione formale c’entra la sua parte: la composizione dell’inquadratura – casuale, l’essere testimoni hic et nunc è l’essenza del fotogiornalismo, ma fino a un certo punto: quello che fece il giro del mondo è uno dei 50 scatti realizzati – la postura del corpo, gli elementi naturali e i colori primari, acqua e terra, rosso e blu, bianco e ocra come in una tavolozza alchemica. Immagini che non si materializzano spesso. Quella foto sarebbe diventata un simbolo destinato a rimanere innanzitutto per un altro motivo: per l’algoritmo della sua divulgazione e per l’effetto prodotto, decuplicato rispetto a casi analoghi del passato, a livello sociale e politico.
L’immagine di Alan riverso sulla spiaggia, e la trasformazione in segno efficace che agisce autonomamente nella biosfera politica e sociale
Non ci si avvicina a certe immagini – che si stia da una parte o dall’altra dell’obiettivo – con la garanzia che tutto sarà come prima
C’è chi si è preso l’impegno di studiarlo, il viaggio di questa fotografia che inizia dove Alan Kurdi si è fermato, nelle prime ore del 2 settembre 2015. Intorno alle 6 e 30 del mattino i resti del naufragio furono avvistati, la fotografa turca Nilüfer Demir dell’agenzia DHA fu tra le prime ad accorrere, a indovinare l’inquadratura. Le prime agenzie battono la notizia attorno alle 9 del mattino, “quello che accade dopo è tipico e inusuale insieme”. La storia della diffusione digitale della foto di Alan Kurdi è stata analizzata in molti report specialistici fin dal 2015, come quelli del Visual Social Media Lab, un team transdisciplinare di università e istituzioni britanniche che lavora sui media and communication studies, la visual culture, la sociologia. La prima a riprendere su Twitter il take d’agenzia è la giornalista e attivista turca Michelle Demishevich. Il suo lavoro genera nelle prime due ore “scintille” di diffusione soprattutto in aree interessate alla crisi umanitaria: Turchia, Libano, Grecia, Spagna, una dozzina di paesi. Ma alle 12 e 45 del 2 settembre Liz Sly, capo della redazione di Beirut del Washington Post la diffonde dal suo account, ottiene in un attimo 7.000 retweet, alle 13 parte un’onda che coinvolge in poche ore 500 testate mainstream online, dall’Huffington Post al Guardian al Mundo alle tv internazionali. Il 3 settembre l’effetto digitale è già attenuato, l’immagine è sui media tradizionali. Normalizzazione dell’evento, si dice. Ma l’evento globale in cui la morte di Alan si è trasformata comincia a produrre effetti.
Inizia una nuova vita, non di Alan ma della sua foto. Quella dell’approfondimento, del racconto, della sedimentazione nella memoria. Della trasformazione in segno efficace che agisce autonomamente nella biosfera politica e sociale. Un simbolo pronto, come tutte le icone, a diventare altro da sé. Un meme, infiniti meme. Una istallazione artistica, una rielaborazione, una ricontestualizzazione. Il caso della fotografia di Alan Kurdi è stato studiato da molti punti di vista, e sono interessanti innanzitutto gli studi sui new media e la loro capacità performativa. E’ da poco uscito un libro che ne dà conto, ma che di fronte (e attorno) a “quella” fotografia e alla storia del suo viaggio-trasfigurazione prova a fare di più, interrogandosi e interrogandoci. Lo ha scritto un accademico, un professore di Teoria della comunicazione dei media dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, Fausto Colombo. Un semiologo e sociologo dei media visivi e digitali. Insomma un teorico, abituato allo sguardo analitico, non emotivo. Anzi portato a studiare gli effetti dei media sulle reazioni emotive e cognitive di massa. Degli altri. Il libro però ha un titolo che rimanda alla e-mozione, o alla sfera del giudizio etico, e a una sapienza antica: Imago pietatis - Indagine su fotografia e compassione (l’editore è Vita e Pensiero). E’ un libro scritto in prima persona. Una sorta di diario di bordo di uno studioso che prende in considerazione se stesso, come essere umano e come cittadino, alle prese con “quella” immagine, con certe immagini, e con il loro effetto sugli individui. “Tornando a me – scrive nell’abbrivio del suo personale viaggio – quelle foto sono rimaste nei miei occhi durante le ore, i giorni e le settimane successivi. Qualche mese dopo, mi sono accorto che non le avrei dimenticate mai più”. E’ ciò che è successo più o meno a tutti nell’emisfero occidentale, tranne i ciechi e i distratti, davanti all’immagine di Alan. O, nel passato, davanti a immagini simili: dove per simili si intende la somma di una serie di addendi: il kairos, ovviamente. Il rapporto con la morte. La sineddoche che rimanda a un dramma più ampio, fuori inquadratura. Possibilmente (anzi senza possibilmente) la figura-vittima infantile.
Le analisi di Visual Social Media Lab riportate da Colombo mostrano come questi elementi, assieme, provochino impennate d’attenzione e modifiche nel giudizio: come per le queries prima generiche sul “drowned syrian” e poi sempre più approfondite. Un grafico mostra “how a single image changed the debate on immigration”.
Poi, al meccanismo digitale si sovrappone “un’altra istanza tipicamente umana”, quella del raccontare. Avere visto, volere dire. Colombo ripensa a Borges, e al giovane commesso di libreria che ne divenne amico e che raccoglierà più tardi molte sentenze del poeta che non vedeva. Una viene dall’Odissea: “Gli dèi tessono avversità per gli uomini affinché le generazioni future abbiano qualcosa da cantare”.
Così nella nostra “società delle piattaforme” la foto di Alan ha iniziato il suo percorso complesso, mutando significato in base agli interventi degli utenti. Potremmo dire: in base a uno scontro tra piattaforme, come fossero placche tettoniche. Insomma, scrive Colombo quando fa il semiologo, in breve la foto di Alan ottiene una “legittimazione come contenuto artistico” e una “configurazione come evento pubblico”. In altre parole, diventa l’icona di un fatto che riguarda tutti e che a tutti dice qualcosa, che qualcosa produce. Arte. Non c’è solo la celebre, discutibile performance di Ai Weiwei disteso sulla spiaggia. C’è anche l’impatto dell’enorme murale realizzato nel 2016 su una riva del Meno, a Francoforte, da Ogun Sen e Justus Becker. Politica. Basta ricordare l’apertura ai profughi siriani decisa da Angela Merkel sull’onda di quella presa di coscienza collettiva. Narrazione. Esce in questi giorni un libro di Tima Kurdi, Il bambino sulla spiaggia (Piemme). Tima è la zia attivista di Alan, emigrata in Canada. A partire dalla tragedia ha promosso la Alan Kurdi Foundation, che raccoglie fondi per i bambini profughi di guerra. Da un punto di vista storico, il fotogiornalismo ha sempre prodotto questo effetto pubblico fin dalla sua nascita. La fotografia, secondo la teorica dei diritti umani Mary Kaldor, “ha definito ‘la crescente consapevolezza di cosa significa essere umani’”.
Colombo ricostruisce il rapporto tra informazione, emozione, fotografia e capacità di suscitare un’ondata più o meno durevole di coscienza, di spinta verso soluzioni umanitarie. Ma “per studiare i media – annota – bisogna usare sia il cinismo sia la tenerezza”. Perché qui comincia la parte più profonda del suo, nostro, viaggio. Che rapporto abbiamo con questo genere di immagini? A cosa serve, il fotogiornalismo? Quanto c’è di pura testimonianza del vero? E’ lo statuto stesso con cui nasce nell’Ottocento questo ritrovato “scientifico” che pretende di restituire l’oggettività, attraverso l’alchimia di sottrarla al tempo e allo spazio: la fotografia, fin dall’inizio, ha uno stretto rapporto con la morte. Colombo lo spiega ricorrendo ai grandi autori che, nei decenni del Novecento in cui la fotografia era un medium “cruciale”, hanno riflettuto a fondo su tutto questo e sulle capacità di “dire la verità”, o di mentire, delle immagini: Susan Sontag (“la conoscenza raggiunta attraverso le fotografie sarà sempre una forma di sentimentalismo, cinico o umanistico”) e ovviamente Roland Barthes . Ma anche noi, i distratti dell’èra degli smartphone e del narcisismo dei social media, potremmo arrivarci da soli a capire quanto di trasparente, o di manipolatorio, o di legato all’esorcismo della morte ci sia dentro una fotografia.
Il fotogiornalismo di guerra non fa eccezione, anzi accentua questa ambiguità. Colombo lo racconta con l’esempio dei primissimi reporter che furono mandati a “dare testimonianza” dei massacri della Guerra di secessione americana, suscitando opposte e furibonde polemiche. O il celebre caso di Robert Felton, che fu inviato dall’llustrated London News a documentare la Guerra di Crimea e con le sue foto che non mostravano morti, feriti, battaglie, ma solo il lato esotico della spedizione codificò, si può dire, la fotografia di propaganda bellica. Dalla Seconda guerra mondiale in poi, però, l’attitudine del fotoreporter ad essere testimone etico di quel che ritrae è divenuta decisiva, innervando di sé un discorso pubblico-umanitario che è diventato tutt’uno con quello delle delle organizzazioni sovrannazionali, l’Onu, l’Unhcr, la Fao, o umanitarie costruendo una narrazione in cui informazione, presa di coscienza e cambiamento delle situazioni tragiche diventano, o vorrebbero diventare, un continuum positivo.
Il rapporto con la morte. La sineddoche che rimanda a un dramma più ampio, fuori inquadratura. La vittima infantile
Poco dopo aver scattato la foto della bambina con l’avvoltoio, Kevin Carter si suicidò, “inseguito dai ricordi vividi di uccisioni e cadaveri”
Ma funziona davvero sempre? La fotografia ci rende, collettivamente, migliori? Anche in questi tempi in cui – è la nostra cronaca –gli eventi più drammatici suscitano al contrario ondate di cinismo che rasenta l’odio, sociale e politico?
Per capirlo c’è ancora la storia delle fotografie. Di alcune “che hanno fatto epoca”, immagini da Pulitzer. Il Burning Monk dello scatto di Malcolm W. Browne a Saigon, 1963. La Napalm girl di Nik Ut. La foto scattata da Paul Hansen alla bambina uccisa dai vigilantes ad Haiti dopo il terremoto del 2010. In molti casi queste foto furono contestate perché troppo disturbanti, perché manipolatorie di una situazione più complessa. Perché troppo crude. A volte subirono censure. Si può vedere, non voler vedere. Cambiare il proprio sentimento, tenersi la propria opinione.
C’è una storia particolare, su cui Colombo si sofferma. E’ un’altra foto che meritò il Pulitzer. Si intitola The vulture and the little girl, c’è una bambina africana accartocciata nel deserto: dietro, in attesa, un avvoltoio. Fu scattata nel 1993 dal fotografo sudafricano Kevin Carter durante la crisi umanitaria in Sudan. Tanta fu l’impressione che scatenò, che la raccolta di fondi a favore di quelle popolazioni schizzò alle stelle, si mosse la politica. Ma ci furono anche pesanti critiche per la sua crudezza. Carter subì accuse di cinismo, di spregiudicatezza. Ma quella foto, come altre, ha davvero contribuito a salvare delle persone. Compreso quell’esserino accartocciato: solo anni dopo si scoprì che era in realtà un maschio, ed che era stato salvato da operatori umanitari. Tutto è bene, nelle storie che finiscono bene? No. Kevin Carter, poco dopo, si suicidò. Fra i suoi ultimi appunti, c’è questa frase: “Mi dispiace così tanto. Il dolore della vita supera la gioia al punto che quella gioia non esiste più… Sono inseguito dai ricordi vividi delle uccisioni, dei cadaveri, della rabbia e del dolore, di bambini feriti o affamati”.
Non ci si avvicina a certe immagini – che si stia da una parte o dall’altra dell’obiettivo – con la garanzia che tutto sarà come prima. E’ la parte più profonda, e ambigua, del viaggio. Che cosa ci affascina in quelle immagini, fino a farle diventare icone? Escluso il caso di sadismo da snuff movie, è che toccano le corde di una pietas, di una consapevolezza di sé che accomuna chi ha scattato e chi guarda. Che questa esperienza ci renda migliori, stabilmente migliori, Fausto Colombo sembra auspicarlo, ma con titubanza. E se ne può dubitare. Tanto più nella nostra epoca sovraesposta (sovraesposta come si diceva un tempo delle fotografie scattate con troppa luce: sbagliate, bruciate) e così indifferente. Ma quei ritagli di mondo e di tempo che sono le fotografie, persino quelle scattate da uno smartphone, a volte dicono qualcosa che è impossibile non capire, sentire. Che resta.