Federigo Tozzi

Finalmente possiamo rimediare all'errore di avere dimenticato Federigo Tozzi

Marco Archetti

Ripubblicata la raccolta di racconti “Giovani”. Da leggere

Perché abbiamo dimenticato Federigo Tozzi? Negli ultimi anni la sua opera ha beneficiato di una rivalutazione critica sempre crescente, tuttavia nei nostri cuori e nelle classifiche editoriali non splende della dovuta e unanime consacrazione. Esiste anche solo un corso di scrittura – e penso a tutto il variopinto arco didattico, che va da quelli glamour a quelli domestici, da quelli vanagloriosi a quelli circoscrizionali – che dedichi alla sua novellistica ciò che merita, ossia un modulo a parte?

 

Eppure se si vuol comprendere la letteratura italiana del Novecento è inevitabile ripartire proprio da qui, dai primi del secolo, e dal carico che l’opera di Tozzi si fa in termini di rilancio dei moduli narrativi, in quel momento bisognosi di ossigeno e di nuova sintassi: il grande modello naturalista mostrava la corda, le avanguardie avevano le gambe pesanti e l’urgente necessità era quella di ricomporre la realtà secondo i codici di un nuovo racconto. Poi la morte prematura, nel 1920, colse Tozzi nel bel mezzo di questo serrato corpo a corpo coi nodi formali decisivi del tempo e recise la traiettoria di colui che, insieme a Verga e Pirandello, è ormai riconosciuto come il più grande novelliere dall’Unità d’Italia alla Seconda Guerra mondiale.

 

E per anni “non si è riconosciuta la dignità di opus all’unica raccolta di racconti voluta dall’autore, Giovani, e perciò le novelle sono state lette prevalentemente in modo sparso e antologico”. Incontrovertibile, questa osservazione che porta la firma di Romano Luperini, presidente del Comitato scientifico per l’edizione nazionale dell’opera omnia di Tozzi, e già curatore, nel 1994, di un’edizione Rizzoli che finalmente la riproponeva per intero, unitamente ad altri racconti. Ma oggi che le Edizioni di Storia e Letteratura di Roma ripubblicano la raccolta Giovani (430 pagine, 38 euro) tale e quale fu – restituendoci la sensazione di un’indubbia coesione di tutte le ventuno novelle e arricchendo l’edizione con un lussuoso apparato critico-filologico che farà la gioia intellettuale e sensoriale di ogni cultore del bello – il torto sembra riparato.

 

C’è di più: gli sparsi tozziani possono esultare perché questo è giusto il primo capitolo di una lunga vicenda editoriale che, in stretta collaborazione con l’archivio contemporaneo “Bonsanti” del Gabinetto Scientifico Letterario G.P.Viesseux e col sostegno del Ministero dei Beni Culturali, riporterà alla luce l’intera produzione narrativa, saggistica e poetica del senese. Ed esultino anche coloro che avessero voglia di avvicinarglisi per la prima volta, perché è il momento buono e saranno ripagati dalla conoscenza di uno scrittore che ha saputo raccontare la realtà non aderendovi piattamente, ma sapendo soprattutto “sentire”. Uno scrittore guidato dall’acume di chi ha elevato il dettaglio a cifra del significato, ma ecco che poi, quel significato, non è rimasto bottino dell’intelligenza (ah, gli autori “troppo intelligenti”…), prigioniero e ostaggio di un ricatto d’autore, al contrario: Tozzi l’ha afferrato per liberarlo e lasciarlo fluttuare nello spazio sterminato che solo la vera letteratura rivela e che l’anima di ogni lettore conosce – lo spazio in cui danza il pulviscolo della vita, lo spazio in cui ogni segno è definitivo perché definitivamente allusivo. “Anche finita, ogni sua opera potrebbe essere un frammento”, intuì Harold Bloom parlando di Kafka. Be’, l’opera di Tozzi è, allo stesso modo, un frammento perpetuo. Allude. E con echi grotteschi e disperati ci dice che siamo parte di qualcosa che non sappiamo né dominare né comprendere: tutti i personaggi di questi splendidi racconti – il portiere-ciabattino Calepodio, l’impiegatuzzo Ottorino Minuti, l’umiliato Torquato che vende casa – sono esposti nudamente alla propria umanità non meno che alla propria quotidianità, ed è lì, tra l’universale e il feriale, che aleggia incompreso il mistero della loro vita.

 

Un discorso a parte meriterebbe la novella “Il crocefisso”, in cui il protagonista afferma: “Io l’amo, allora, la terra. Io sento perché il sole ci illumina e gli alberi sono così belli”. E’ l’apice di tutta una narrativa: divagazione metafisica, elegia panica, luce del frammento che indovina l’intero.

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