Il duo che scherza con i santi
La lirica alla radio: 31 anni di “Barcaccia”, opera buffa e serissima di Michele Suozzo ed Enrico Stinchelli
In pieno spirito da Barcaccia, intesa come programma radiofonico, celebriamo i 31 anni, forse la scadenza meno rotonda e più squinternata che esista, del meraviglioso programma radiofonico di Michele Suozzo e Michele Suozzo. E così ci auguriamo di dare la stura a una serie di anniversari incongrui, per rompere il dominio dei multipli con lo zero finale e la tirannia dei centenari e cinquantenari, e ovviamente di scatenare anche una ben più corrosiva sequenza di invidie, rodimenti, risentimenti, nel settore dove alligna, più che mai, una sottile forma di odio reciproco. “La Barcaccia” parte con altri nomi. Debutta come “Foyer”, usurabile per via del francesismo, poi diventa il “Club dell’opera”, che invece fa un po’ gruppo d’acquisto. Il centro del bersaglio è proprio, con l’espressione che indica un luogo preciso dei teatri d’opera, la zona dei palchi posti nell’immediata prossimità del palcoscenico. Acquisito “Barcaccia”, il vezzo del cambiamento resta nelle sigle di apertura, con note arie d’opera cui vengono cambiate le parole per trasformarle in annunci del programma imminente, ma affidate a ottimi cantanti. Adesso il culmine della sigla introduttiva è nell’esortazione ad aggiungere “un milioncino” di ascoltatori in più durante il programma, una chiamata all’audience o meglio al pubblico, come si addice a chi comunque vive di teatri, ha bisogno del calore di una platea piena, pur nella trasposizione, appunto, in audience radiofonica.
Un programma vivo: la sua pagina Facebook conta più di 15 mila iscritti, infatuati che commentano, telefonano, litigano, tifano
“La Barcaccia” ha un pubblico caldo perché è un programma vivo (“discutiamo ma alla fine siamo tutti uniti dall’amore per la musica”, ci dice una fervente, competente e gentilissima barcaccista da cui abbiamo tratto un po’ di informazioni). Se la sua pagina facebook conta più di 15 mila iscritti è perché sono più di 15 mila infatuati, che commentano, telefonano, litigano, tifano. Si scontrano anche su Twitter, con gli hashtag #cantantimorti e #cantantivivi, nello spietato confronto tra voci, reso possibile dalle registrazioni storiche. Corrispondono davvero al pubblico abituale dei teatri d’opera. L’interattività predicata un po’ trombonescamente altrove la trovate invece praticata a partire da un mezzo antico come la radio, e dentro a uno spazio in cui si parla di qualcosa di ancora più antico, come la lirica, a dimostrare che il ricamo convegnistico sulla multimedialità è, appunto, roba da chiacchiera in stile Casaleggio e associati, sciocchezze da visionari autonominatisi, e invece si realizza con semplicità, automaticamente, quando si compie il miracolo non di avere chissà che strumenti di comunicazione ma di avere qualcosa da dire. E il dibattito continuo su opere, cantanti, direzioni, allestimenti, scene, costumi, pubblico che capisce o non capisce, è materia ribollente, e la multimedialità e le connessioni sono come l’intendenza, seguono disciplinatamente, attraversano, appunto, in 31 anni l’era pre-internettiana, quella quasi-internettiana e quella dell’internet conclamato.
Suozzo e Stinchelli hanno ritmo naturale (e in più lo hanno anche studiato) nell’alternanza dei loro interventi, sono gli unici da cui si può accettare per radio che ridano alle loro stesse battute (diversamente dalla insopportabile genìa dei dj spiritosi che potete sentire altrove), hanno i tempi perfetti per il difficile umorismo a due, sanno virare senza sforzo apparente dal registro serio a quello buffo, dalla farsa alla commedia al dramma, sanno celebrare la serietà di un fatto che la richiede e poi sanno subito romperla quella serietà, e sanno alternarsi nel ruolo di spalla e di primo attore, come nel doppio di tennis si alternano nell’andare a rete. Giorni fa si sono trovati a dover raccontare lo spinoso caso di MeToo operistico a tre e omosessuale che ruotava attorno al controtenore (sono i cantanti nel registro maschile più alto, che corrisponde al contralto femminile) David Daniels e hanno dato prova di tutta la loro tecnica. A turno uno dei due conduttori, serio e indignato il giusto, esponeva la notizia dell’arresto del controtenore e del marito, direttore d’orchestra, accusati da un baritono di aver abusato di lui dieci anni fa. Ci sono due arresti e una persona che denuncia fatti molto gravi. Ma Suozzo e Stinchelli riescono a gestire, con la consueta divisione dei ruoli, sia la relazione del fatto sia qualche legittimo dubbio sulla versione dell’accusatore, riuscendo anche a scherzare su un mondo di serpi e in generale sul totem del MeToo (e buttano lì il riferimento per iniziati a un concorso che fece discutere evidentemente per episodi simili). Non danno mai l’impressione di essere, come nell’orrendo gergo televisivo, “copionati”, ma sempre di buttare lì quello che passa loro per la testa, ricordi o giudizi (sui quali torneremo), suggestioni o precise indicazioni. Hanno a che fare con un mondo definito: il repertorio è noto, le regole pure. Non amano le incursioni della contemporaneità musicale. Proprio non vogliono scontrarsi con i cultori di certa sperimentazione, né parlarne. Il loro ambito è dichiarato e costantemente ribadito tra bel canto e melodramma (se capisco bene, perché tentando di gareggiare con la loro ironia ne sto scrivendo pur non essendo per nulla esperto di opera). Vanno in onda in un’ora perfetta. Per chi è lontano da casa, intendo semplicemente al lavoro o per strada, si accendono, all’ascolto, nostalgie di pranzi casalinghi in pausa da ufficio, cose dimenticate, in cui qualcuno ha preparato il pranzo mentre ascoltava l’intelligenza divertente e la musica della “Barcaccia”. Si sta nel traffico, luogo di elezione dell’ascolto radiofonico, e per un po’ va via la combattività tra automobilisti: meglio lasciar passare un prepotente che perdersi il distillato di esecuzioni che, ad esempio, trovate nella rubrica in cui si mettono a confronto le interpretazioni di diversi artisti per uno stesso pezzo. Ci si trova a ridere al semaforo da soli o a commuoversi , tra gli sguardi dei vicini di corsia. Loro sono una scuola di allegra levità, ma la musica è una cosa seria, se non altro perché è lì, scritta, eterea ma, appunto, confrontabile nelle esecuzioni e sempre da inventare nell’interpretazione. Spietata la musica (un concetto un po’ alla Paolo Conte, che avendo cantato del maestro Verdi “nell’anima” può essere ammesso al cospetto della “Barcaccia” pur se jazzista) e spietati quindi i giudizi.
Sono diventati un po’ la Radio Radicale della lirica. Il gossip colto e amicale e la competenza. Il “topone” e il “maeshtro”
Solo Suozzo e Stinchelli potevano, uscendone vivi, mettere in onda settimanalmente una sfilza di orrori musicali, di sparizioni vocali, di débâcle tecniche, di precipizi dell’intonazione o di mancamenti o totali incongruità dell’emissione sonora, come fanno nella rubrica dedicata proprio agli sfondoni. E che però ci aiuta a capire che la musica è difficile e che il repertorio resta vitale, e, per dirla banalmente, si rinnova ogni giorno, proprio per la sua difficoltà e per le mille strade interpretative che apre. Si sbaglia anche perché si prova, oppure perché si è scarsi, perché non era la sera giusta, perché la voce, il teatro, la scena, sono basati su una finzione che inchioda però gli errori reali. Suozzo e Stinchelli, uno docente di storia della musica e l’altro regista di teatro d’opera, hanno una cultura musicale e operistica spaventosa. E in 31 anni sono diventati un po’ la Radio Radicale della lirica, potendo riempire puntate intere solo con spezzoni del passato o vecchie interviste. Un archivio di cui dovremmo essergli grati, in anni di dispersione del ricordo e di distruzione della pur celebratissima memoria. Giocano a far finta di non conoscere alcuni nomi popolarissimi della musica di oggi. Ma parlano anche de Il Volo, fingendo di prenderli sul serio come cantanti lirici (a loro dobbiamo la specificazione che non si tratta di tre tenori, come da formula sperimentata, ma di due tenori e un baritono). Fanno sentire e sezionano musicalmente anche Andrea Bocelli, sempre stupiti dall’ascolto che se ne fa anche in teatri di grande tradizione, ma poi lo mettono a confronto, al microscopio, come da nome della rubrica, con interpreti celebrati, divini, e l’effetto è spiazzante, stringe il cuore. Fulminano le mode, insomma, senza riverenza per le moltitudini acclamanti. In fondo è un miracolo che siano ancora in onda.
C’è un fondo di gossip colto e amicale, da consorteria o da iniziati, al quale però l’ascoltatore occasionale si avvicina con rispettoso compiacimento, cercando di decifrare, ma senza sentirsi escluso. Non c’è puntata senza qualche battuta su Placido Domingo, che alla “Barcaccia” è sempre e solo “Il topone”, nomignolo affibbiatogli tra gli appassionati dei teatri e portato in radio senza ritegno. E poi il “maeshtro” o più precisamente “maeshtre”, con la “sht” pronunciata con eccesso caricaturale di napoletanità, mai citato per nome (è Riccardo Muti) ma sempre con questa ipostasi, sua maestrità si direbbe. Un monumento che per troppa lode finisce anche lui un po’ preso in giro dai due. Appunto, entrano nel merito, magari con garbo e un po’ per traverso, come con il maeshtre, ma possono farlo perché, ridendo e scherzando, parlano di una cosa che è assieme ineffabile e concreta, seria e inconsistente. Sono gli unici, Suozzo e Stinchelli, che parlano tranquillamente e lievemente male dei morti, anche recentissimi. Alla notizie della morte del regista Eimuntas Nekrosius lo hanno compianto per circa tre secondi e mezzo per poi constatare che il pubblico lo aveva abbandonato da tempo e criticare ironicamente le sue scelte stilistiche.
Non danno mai l’impressione di essere “copionati”, ma sempre di buttare lì quello che passa loro per la testa, ricordi, giudizi, suggestioni
La materia operistica e il mondo che a essa gira intorno sono fatti apposta per impedire l’uso di un unico registro interpretativo, si direbbe che impongano il pluralismo non solo nei giudizi ma anche negli strumenti ermeneutici. E in quella ricchezza di visioni e di approdi possibili Suozzo e Stinchelli ci sguazzano, è l’essenza del loro divertimento ed è esattamente ciò che viene trasmesso a chi ascolta. Metteteli a confronto invece con la seriosità della musica leggera e contemporanea, addirittura inedita come nel caso del Sanremo che stasera darà le sue corone, o con la terribilità delle competizioni in stile talent. Lì non si scherza con la musica, non ci sono Perle Nere (come si chiama la rubrica con gli strafalcioni) se non per scendere al trattamento crudele da Corrida televisiva e non ci sono esecuzioni a confronto controllate al Microscopio (la rubrica che paragona lo stile e la qualità dei cantanti e direttori), ma solo eventualmente omaggi, come proprio nelle riproposizioni da parte di interpreti stranieri di pezzi in gara (come nel Sanremo non ancora sovranista di qualche tempo fa). Rituale il sanremismo e rituali i talent, imprevedibile invece il “varietà dell’opera”, come da nome esteso della testata di Suozzo e Stinchelli.
Solo loro potevano, uscendone vivi, mettere in onda una sfilza di orrori musicali come fanno nella rubrica dedicata agli sfondoni
Nessun pluralismo della comprensione è ammesso in quel mondo tra talent e Sanremo, ma siamo in piena guerra civile ermeneutica (come Odo Marquard definiva nientemeno che le guerre di religione). Nel mondo della “Barcaccia” invece ci si batte con coraggio per la propria interpretazione delle sacre scritture, che nel caso specifico sono musica e testi delle opere, ma il pluralismo evita (quasi sempre) che finisca a botte. Suozzo e Stinchelli, s’intende, di loro sarebbero per il dispotismo, come tutti gli appassionati. Ma hanno capito il gioco e hanno capito che si deve lasciare sempre una finestrella interpretativa aperta. Bocciano solo gli errori marchiani, il resto lo discutono, aprono il dibattito, scatenano gli appassionati. Forse lo fanno non per celebrare la fine della guerra civile ermeneutica, che magari è troppo e loro sono troppo spiritosi per scomodare categorie ingombranti, ma attingendo a un garbo d’antan, quello che richiedeva di ascoltare, giudicare con moderazione, castigare solo pagando il piccolo dazio di una battuta divertente e pagare con un altro piccolo obolo di conoscenza se anche si vuole dare solo un parere, altrimenti si può anche stare zitti o chiamare in causa, come fanno in radio, dando la parola a esperti e consulenti tutti con un grano di follia oppure con intervista improvvisamente accuratissime quando parlano con i protagonisti della scena musicale lirica e operistica. Ecco, le domande ai grandi cantanti, ai direttori, ai registi, sono di una precisione impressionante, chiamano la risposta interessante, non permettono giri a vuoto, né perdite di tempo. Che poi sarebbe la cosa meno musicale possibile. Le loro, invece, più che interviste sono duetti, trii, in cui ciascuno entra al momento giusto, con l’intonazione giusta, e dicendo le cose che vogliamo sapere. E si apprezza, nella meraviglia generale, il piacere delle voci delle grandi cantanti e dei grandi cantanti. Un piacere per le orecchie non solo quando cantano ma anche quando parlano. Fateci caso, nel traffico, o mentre girate il sugo