Che fine ha fatto Leonardo?
Perché l’Italia da decenni non ha più artisti internazionali. La sindrome del ferramenta
Gli artisti svizzeri Fischli & Weiss alla fine degli anni 80 furono invitati a fare la loro prima mostra a New York nella mitica Sonnabend Gallery. Nervosi, avvicinandosi l’apertura chiamarono per sapere le dimensioni delle porte timorosi che alcune delle loro opere fossero troppo grandi per entrare nello spazio. Flemmatica, la grande Ileana Sonnabend rispose “ragazzi non è importante quanto sia grande la porta della galleria ma quella della casa dei collezionisti”. Il problema degli artisti italiani in particolare negli ultimi quarant’anni è che conoscono troppo bene la dimensione delle porte delle case dei collezionisti e pochissimo quelle dei musei e delle gallerie internazionali. In un anno di celebrazioni del genio di Leonardo ci chiediamo perché l’arte italiana non riesca, o faccia molta fatica, a sfornare artisti di livello internazionale. L’ultimo è stato Maurizio Cattelan, ma anche lui è imploso sotto il peso di una genialità trasformatasi per troppa auto indulgenza in una overdose di furbizia. Dopo di lui sono pochi quelli che fra la fine degli anni ’90 e oggi sono stati in grado di affermarsi allo stesso livello dei colleghi tedeschi, inglesi, svizzeri, americani e persino francesi. I perché sono molti .
Diceva Ileana Sonnabend: “Ragazzi, non è importante quanto sia grande la porta della galleria ma quella della casa dei collezionisti”
Principalmente la causa di questa poca visibilità è del sistema dell’arte italiano. Ma anche gli stessi artisti hanno le loro colpe. Partiamo da loro con una storiella sulla differenza fra un artista inglese uno americano e uno italiano. Tutti e tre vivono dentro una piccola stanza. Tutti e tre guardano una parete da molto vicino. L’americano è fissato con un chiodo piantato nel muro. Lo guarda lo riguarda e lo riguarda ancora, alla fine decide di trasformarlo in un opera d’arte magari dipingendolo magari scolpendolo o fotografandolo. Se è un bravo artista il chiodo che mostrerà al pubblico non sarà più il chiodo piantato nel cartongesso di casa sua ma un chiodo universale in cui tutti ritroveranno i loro chiodi in qualunque parte del mondo vivano, di qualsiasi sesso o razza siano. L’artista inglese anche lui guarda da molto vicino il muro della sua stanza ma a un certo punto inizia a sbatterci la testa contro con una violenza tale da spaccarsela sporcando di sangue tutto quello che sta attorno. Il risultato non è raffinato ma spettacolare. Lo spettatore rimarrà impressionato e non si dimenticherà facilmente di quello che ha visto. L’artista italiano pure lui, o lei, osserva da molto vicino la sua parete. La guarda la riguarda e poi inizierà a notare la piccola crepa, la macchietta d’umido, le ombre e via via tutti gli altri dettagli di quell’intonaco. Quando tirerà fuori un’opera d’arte probabilmente sarà in grado di dipingerla come se fosse vera, persino meglio di Leonardo, ma tuttavia rimarrà sempre la parete della sua stanza, mai quella universale del mondo come il chiodo dell’americano o il sangue violento dell’inglese. Una volta apprezzata la perizia tecnica e la pazienza avuta nel farla a nessuno di quella parete interesserà più. Tutti torneranno a casa propria e l’artista rimarrà a casa sua. Da un punto di vista puramente venale, pochi vogliono appendersi in casa un’immagine così privata e così legata alla vita di una persona. Quando vediamo un’opera d’arte vogliamo essere portati da qualche altra parte, non a casa dell’artista. Anche nel caso di Van Gogh la sua sedia le sue scarpe o la sua stanza da letto non ci trascinano nella quotidianità dell’artista ma dentro una sua visione allargata del mondo, le sue passioni e i tormenti che in qualche modo riusciamo a condividere. L’arte e la cultura italiane sono spesso vittime della mitologia del fatto in casa, del fatto a mano. Oppure sono vittime della sindrome che io chiamo del ferramenta, dove i materiali ci piacciono per quel che sono e non per quello che ci aiutano a dire.
L’ultimo grande artista di valore (e mercato) internazionale è stato Maurizio Cattelan. Le colpe del sistema museale e dell’arte italiano
Lo scultore minimalista Richard Serra usa lastre di ferro arrugginite gigantesche per creare opere monumentali e minacciose . E’ la loro presenza fisica, non estetica, che lo interessa. Un’artista italiano che usi lo stesso materiale lo fa probabilmente perché gli piace il colore della ruggine. Il gusto prende il posto della potenza, il bello quello della minaccia. Ma per quanto il bello e il gusto siano importanti non sono loro gli elementi che rendono un’opera d’arte universale e a volte eterna. L’arte italiana fa fatica a liberarsi del ferramenta e del gusto, per questo fa fatica a conquistare il mondo. Ma le colpe più gravi sono del sistema arte in Italia, dove da sempre è mancata, a differenza di tanti altri paesi, una rete di musei che andassero da quelle che in Svizzera vengono chiamate kunstalle, spazi dedicati esclusivamente a mostre temporanee, a musei veri e propri con una programmazione regolare e una collezione. Non che in Italia non esistano i musei di arte contemporanea, ma a parte rare eccezioni navigano spesso a vista, oberati da problemi burocratici , scarsità di fondi, pastoie politiche, gestiti in modo troppo personalizzato in termini di scelte e programmazioni, ossessionati dall’avere la fila alla porta. Un buon esempio ma tragico dell’approssimazione del sistema museale italiano è questo. Qualche anno fa la Tate Modern di Londra, il Reina Sofia di Madrid e il Museum of Modern Art di New York organizzarono una grandissima retrospettiva di Alighiero Boetti, forse l’artista piu importante del nostro Dopoguerra, il più visionario e anticipatore di una globalizzazione ancora tutta, negli anni ’70 e ’80, da inventare. Adducendo una scusa più patetica dell’altra, nessun museo italiano fu in grado di entrare in quella prestigiosa cordata per portare la mostra nel nostro paese. E qui viene al pettine un altro grosso nodo, quello del jus primae noctis ovvero la mania di molti curatori e direttori di museo italiani di voler essere loro e solo loro ad avere il diritto esclusivo di pensare e organizzare le proprie mostre rinunciando a qualsiasi logica collaborazione. Infine, ma non ultimo, il problema delle scuole d’arte e in particolare le Accademie italiane. A Düsseldorf, a Los Angeles a Francoforte, a Londra, a New York o a Shanghai le migliore scuole da sempre invitano come docenti artisti internazionalmente riconosciuti capaci di portare agli studenti sia la loro esperienza creativa che quella di mostre museali e di mercato. In Italia questo accade molto raramente. L’insegnamento dell’arte è nelle mani di dignitosi, seri docenti che solo in pochi casi hanno fatto parte di quel sistema dell’arte allargato internazionale verso il quale anzi nutrono risentimento e vedono pieno di complotti verso il proprio operato, sostenuti nelle loro paranoie da figure nazional popolari alla Philippe Daverio. Tutti questi problemi fanno sì che gli artisti già da giovani si affidano al sostegno di quella incredibile rete di collezionisti privati che l’Italia possiede ma che inevitabilmente offre alle opere d’arte spazi limitati, domestici quasi mai museali. L’artista non avendo sbocchi istituzionali trova in questo sistema un conforto economico che indebolisce il suo slancio eroico e sperimentale e insieme a questo l’energia per imporsi e dialogare su un orizzonte più vasto, nascosto da una siepe lasciata crescere troppo per quasi mezzo secolo. Così il naufragar dell’arte italiana è dolce in questo mare.
Perché Leonardo passa a Brera