Le lastre d'acciaio di Richard Serra, e le sorprese regalate dai piccoli studi di molti giovani
Il senso dell’arte non è solo nella muscolarità dei super nomi che dominano il mercato. E per molti artisti della nuova generazione le frontiere sono linee senza significato
In un libro su Mario Merz, molto bello, uscito di recente (l’autore è Giorgio Verzotti) si racconta questo episodio. Nel 1982 in occasione di una mostra itinerante che metteva a confronto cinque architetti e cinque scultori si trovarono fianco a fianco lo stesso Merz e Richard Serra, il grande artista americano. Serra, che non era ancora la star che poi sarebbe diventato, si era presentato organizzatissimo, con molti aiuti e mezzi a sua disposizione, per allestire le grandi lastre d’acciaio della sua installazione. Nello spazio contiguo invece erano al lavoro invece alcuni assistenti di Merz per montare su indicazioni dell’artista un doppio igloo. Quando Serra avvicinandosi venne a sapere che Merz sarebbe arrivato solo all’indomani, si lasciò andare a una grande risata e a un commento sarcastico. Nella notte una lastra di cristallo dell’igloo si staccò, cadendo da sei metri e andando in frantumi. Tutti erano pronti a incassare un’altra pesante dose di ironie da parte di Serra. Invece Merz arrivando spiazzò tutti. “E’ fantastico”, disse, “è il fulmine che ha colpito il torrente”. E lasciò l’opera com’era. Commenta Michele Bonuomo, testimone dell’accaduto: “Mario era un grande poeta. Serra non poteva capire la poesia della cosa”.
Cito questo episodio perché mi sembra aiuti a capire come troppo spesso l’approccio all’arte contemporanea sia unilateralmente allineato sul metro di Richard Serra, un autore che non a caso Francesco Bonami cita nel suo intervento pubblicato in questa pagina. Conta cioè la potenza di fuoco, la capacità di egemonizzare il sistema mediatico, culturale, economico. Contano, per dirla in sintesi, i muscoli. Intendiamoci, Richard Serra è un grande artista. Le sue grandi sculture ambientali viste (e vissute) alla Guggenheim di Bilbao o alla Dia Beacon fuori New York comunicano un’energia impressionante e senza tempo. Al paragone gli Igloo di Mario Merz, che oggi vediamo raccolti nella bellissima mostra dell’Hangar Bicocca, sembrano piccole cose non tanto per le dimensioni che a volte non sono da meno di quelle di Serra, ma per la loro intrinseca fragilità, per quella scelta espressiva di un tono sommesso e di un approccio non imperativo ma riflessivo.
Insisto su questo parallelismo non per ribaltare la scala di valori (anche se il mio cuore batte evidentemente per Merz…) ma piuttosto per sottolineare come nell’arte contemporanea non si possa adattare una sola scala di valori, che è poi quella mainstream degli artisti “muscolari” capaci di presidiare la scena globale. Certamente ci divertiamo tutti a seguire le loro imprese e ne restiamo a volte affascinati; ma il mondo non si esaurisce con loro perché intorno c’è dell’altro. Anzi, c’è molto d’altro. Vengo al concreto. Personalmente ho la fortuna di seguire il lavoro di molti artisti italiani quasi tutti della generazione degli anni 80, (oltretutto con una alta percentuale di artiste), e confesso di essere profondamente ammirato dalla qualità del lavoro di tanti di loro, dalla determinazione, anche dall’audacia delle scelte che fanno, della capacità con cui sanno strutturare la loro vita creativa gestendo con bravura gli inevitabili condizionamenti. Dalle visite nei loro studi, che certo non sono le piazze d’armi dei grandi big…, non si esce mai senza aver incassato qualche sorpresa. E ogni volta la sensazione è quella di esserci imbattuti in una grande e imprevista vitalità. Scontano, come scrive Bonami la debolezza dell’infrastruttura museale italiana? Può essere. Ma muoversi in un orizzonte molto de-istituzionalizzato, dove i soggetti organizzatori sono tanti, diversi e variegati, dà a questo fenomeno una dimensione più agile e di maggiore libertà. Inoltre per molti di loro le frontiere sono linee senza significato e li troviamo a lavorare in mezza Europa come fossero a casa loro. Aggiungo un dettaglio non secondario: è una generazione di artisti che garantisce un’identità più “democratica” all’arte, in quanto con loro un’opera diventa accessibile a un segmento molto più vasto di aspiranti collezionisti o appassionati. In questo modo cresce oltretutto un collezionismo nuovo, curioso e meno appiattito sui soliti nomi. Certo non sarà come comperare un muscoloso Jeff Koons, ma la soddisfazione, garantisco, non è da meno…
Giuseppe Frangi è curatore e presidente dell'Associazione Testori