Il trionfo e l'oblio. Torna a Roma “Anna Bolena”
A lungo ignorata dopo una memorabile prima, riesumata con la Callas. Il capolavoro di Donizetti al Teatro Costanzi dal 20 febbraio
Nel dicembre 1830, quando presentò al Teatro Carcano di Milano l’Anna Bolena, Donizetti aveva solo 33 anni. Era un bell’uomo aitante, occhi scuri, capelli folti, i favoriti che gli incorniciavano il volto. “Un giovane alto, freddo e sprovvisto di talento”, avrebbe detto Stendhal, ancora troppo infatuato di Rossini per rendersi conto del contrario. Alle spalle aveva già molti anni di onorata carriera; nel cuore una giovane moglie adorata che gli aveva dato un primo figlio morto in fasce; e in testa vari attacchi di convulsioni, effetto della sifilide incipiente. Non poteva immaginare che quell’opera in due atti, composta in un mese sul libretto del grande Felice Romani, sarebbe diventata il suo primo grande successo internazionale, destinato ad aprirgli le porte dei principali teatri in Italia e all’estero, con immediate trasferte a Londra e Parigi e una marcia trionfale verso l’olimpo della gloria.
Dopo vari decenni, Anna Bolena finì per venire eclissata da altre opere più leggere e felici delle sessantanove composte da Donizetti, come L’elisir d’amore e il Don Pasquale e cadde in un oblio durato ottant’anni. Nel 1957, in piena Donizetti Renaissance, la prima delle tre opere inglesi venne riesumata alla Scala da Gianandrea Gavazzeni, che procedette a vari tagli sulla partitura originale, da Luchino Visconti che offrì una “regia di un’austerità degna della tragedia”, come segnalò Eugenio Montale sul Corriere d’Informazione, e dalla signora Meneghini Callas, “un’Anna senza rivali”, scrisse il poeta, per “voce vibrante, portamento scenico, arte di canto e stupenda stilizzazione”, mentre Giulietta Simionato le teneva testa “in modo meraviglioso” nella parte di Jane Seymour.
Oggi il primo capolavoro di Donizetti ritorna al Teatro Costanzi di Roma in un nuovo allestimento in coproduzione con il teatro lituano di Vilnius, sotto la direzione di Roberto Frizza, direttore del Festival Donizetti di Bergamo, con la regia di Andrea De Rosa, in sei recite a partire dal 20 febbraio (22, 24, 26, 28 febbraio e 1° marzo), e con due cast d’eccezione (Anna Bolena, Maria Agresta - Francesca Dotto il 1° marzo; Giovanna Seymour, Carmela Remigio - Paola Gardina il 1° marzo; Enrico VIII, Alex Esposito - Dario Russo il 28 febbraio e il 1° marzo; Percy, René Barbera - Giulio Pelligra il 1° marzo; Smeton, Martina Belli; Hervey, Nicola Pamio; Rochefort, Andrii Ganchuk).
A Roma dunque si potrà riscoprire Anna Bolena nella sua integralità, senza le amputazioni che alterano molti aspetti della drammaturgia, e grazie a “un lavoro di scavo sulla profondità di Donizetti che si nasconde in superficie”, come ha spiegato il regista De Rosa, sempre attento a riunire la dimensione teatrale e quella musicale, rovesciando la prospettiva abituale, per partire dalla storia e dal contesto e arrivare al carattere dei personaggi, come ha fatto già due anni fa, sempre al Costanzi, nell’allestimento molto epurato della Maria Stuarda.
Per il primo capolavoro di Donizetti un nuovo allestimento al Teatro Costanzi in coproduzione con il teatro lituano di Vilnius
Ma com’è nato il primo capolavoro inglese di Donizetti? Quali sono gli ingredienti costitutivi? Cosa racchiude la miscela esplosiva di questo dramma della gelosia, ambientato all’epoca dei Tudor, alla corte di Enrico VIII, re tirannico e assai flamboyant, che per liberarsi della prima moglie Caterina d’Aragona mise mano allo scisma con la chiesa di Roma fondando la religione anglicana, e per scaricare la seconda, la magnifica Anna Bolena, madre della futura Elisabetta, prima la tradì con Jane Seymour, scegliendo poi la via più speditiva della condanna a morte.
Donizetti nel 1830 era già un compositore accreditato. Aveva esordito giovanissimo, a vent’anni, con alcuni quartetti per archi per debuttare poi nel melodramma, con una farsa di successo, con l’amico e futuro impresario Bartolomeo Merelli. Dopo i primi passi a Mantova e Venezia, era approdato a Roma, al Teatro Argentina, con la Zoraide di Granata, poi a Napoli, al Teatro Nuovo, e nel 1822 alla Scala di Milano, con Chiara e Serafina, ossia i pirati, un’altra opera semiseria scritta a rotta di collo su libretto del genovese Felice Romani, che però non riscosse grande successo. La stagione d’oro per lui doveva iniziare a Napoli, dove si era trasferito dopo un anno tremendo trascorso a Palermo come maestro di cappella, direttore musicale e compositore del Teatro Carolino, incarico dal quale fuggì a gambe levate, frustrato dal lassismo di cantanti, musicisti e pubblico locale: “Guardan la gente di teatro come infami e perciò nessuno di noi si cura, come noi nulla ci curiamo di loro”, scriveva al suo maestro Giovanni Simone Mayr. “Già il mestiere del povero scrittore d’opere l’ho capito infelicissimo fin da principio, e il bisogno solo mi ci tiene avvinto, ma Le accerto, caro maestro, che ne soffro assai da questa sorta di bestie, di cui abbisognamo per l’esecuzione de’ nostri sudori”.
A Napoli, si era legato a Domenico Barbaja, il geniale impresario, semianalfabeta e impulsivo, che aveva fatto la fortuna di Rossini, rinchiudendolo fra l’altro in una cameretta del suo palazzo con un piatto di maccheroni per costringerlo a scrivere l’Ouverture dell’Otello, e aveva finito per consegnarli la sua amante, Isabella Colbran, che ne diventerà la prima moglie. Genio e sregolatezza, Barbaja (leggete Il padrino del belcanto di Philip Eisenbeiss, Edt) scritturò Donizetti dopo averne ascoltato alcuni lavori, rimanendo impressionato dalla sua straordinaria produttività. E con Barbaja, Donizetti sfornerà a raffica melodrammi, opere serie, semiserie e farse, dapprima per il Teatro nuovo, poi per il San Carlo, ricostruito a tempo di record dopo l’incendio del 1816 per diventare il primo teatro d’Europa, e a partire dal 1829 come direttore delle musiche dei teatri reali, continuando però a comporre e a eseguire opere anche in altre città.
Così nel 1830 sarà Barbaja, “l’ebreo Barbaja”, come scrive Donizetti non troppo contento del trattamento economico, a dargli lo svincolo per affrontare la nuova proposta che viene da Milano. Sognando un lancio alla grande per il neonato Teatro Carcano sul corso di Porta Romana, con 1.800 posti, fondato da un gruppo di notabili melomani che avrebbero voluto prendere in gestione la Scala, il conte Pompeo Litta aveva deciso di ingaggiare il bergamasco Donizetti principe del melodramma nel Regno delle due Sicilie e il catanese Vincenzo Bellini, autore di punta nel Lombardo Veneto e suo diretto concorrente nella successione di Rossini oltreché suo principale rivale. Fu così che nella sua prima stagione il Teatro Carcano di Milano produsse nell’arco di tre mesi due capolavori inestimabili come l’Anna Bolena in dicembre e La sonnambula in marzo.
Anna è lacerata tra il tormento sentimentale verso il marito Enrico VIII, l’inclinazione per Percy, l’amicizia per Jane Seymour
Ansia di rivalsa contro i critici che otto anni prima alla Scala gli avevano riservato un’accoglienza meschina, gusto per la sfida di suscitare un’eco clamorosa con la nuova opera, desiderio di ritornare sui propri passi… come che sia, ai primi di agosto del 1830 Donizetti firma un contratto col Teatro Carcano, impegnandosi a inaugurare la stagione di Carnevale il giorno di Santo Stefano, con un’opera nuova, su un libretto di Romani, una compagnia di canto guidata da Giuditta Pasta e Giovanni Battista Rubini, e un compenso di 650 scudi. Il soggetto, Anna Bolena, è “bello, interessante e di genio di M. Pasta”, scrive Donizetti al maestro Mayr. Romani attinge a piene mani non al teatro di Shakespeare ma al dramma neoclassico del conte Alessandro Pepoli, e all’Henri VIII di Marie-Joseph Chénier tradotto in italiano dal Pindemonte. E da conservatore prudente colora il tutto nelle tinte fosche della tirannide, sospendendo nell’incertezza la presunta colpa della moglie del re Tudor condannata a morte per infedeltà. “Anna fu accusata di aver tradita la fede coniugale, e complici suoi furono dichiari il conte di Rochefort, suo fratello, Smeton musico di corte, ed altri gentiluomini del re.
Il solo Smeton confessossi colpevole; e su questa confessione Anna fu condannata al supplizio con tutti gli altri accusati”, scrive infatti Romani in esergo al libretto, per difendere la sua interpretazione. “E’ incerto ancora s’ella fosse rea. L’animo dissimulatore e crudele di Enrico VIII fa piuttosto credere ch’ella fosse innocente. L’autore del melodramma si è appigliato a cotesta credenza, come più acconcia a un lavoro da rappresentarsi in teatro: per questo riflesso gli sia perdonato se in alcuna parte si discostò dall’istoria. Qual siasi l’orditura dell’azione e i non dice: sarà essa facilmente rilevata dal lettore”.
Così, all’inizio di settembre del 1830 Donizetti parte con la moglie da Napoli alla volta di Roma. Si ferma alcune settimane, affida Virginia alle cure dei Vaselli, la famiglia d’origine, e continua il viaggio verso il nord. Il martedì 5 ottobre è a Bologna, dove aveva studiato con Stanislao Maffei, il maestro di Rossini. L’indomani riparte per Milano. Vi trova alloggio, lascia i bagagli e la domenica 10 si rimette in viaggio per Bergamo, la città natale dove manca da nove anni e dove ritrova il padre sempre in assillo perché a corto di soldi, i fratelli e l’amato Mayr, il bavarese che per primo aveva colto le sue doti straordinarie. Ricevuto il libretto, Donizetti si ritira sul lago di Como, ospite a Blevio nella villa di Giuditta Pasta, la soprano più famosa d’Europa, che sarà Anna Bolena. Erede della grande Isabella Colbran, dotata di voce potente ma non completamente sotto controllo, era considerata una stella di prima grandezza nel mondo del bel canto. Nell’estate del 1830 era reduce da Vienna, dove in giugno aveva cantato la parte di Imogene nel Pirata di Bellini. Coetanea di Donizetti, anche la Pasta aveva debuttato giovanissima, nel 1818 alla Scala, ed era considerata la musa di Bellini, col quale era passata dalle tessiture di mezzosoprano a quelle di soprano drammatico di agilità e di forza, come ricorda Giorgio Appolonia nella sua bella biografia ormai introvabile (Giuditta Pasta, gloria del belcanto, Eda).
Con Barbaja, geniale impresario che aveva fatto la fortuna di Rossini, il compositore bergamasco sfornò melodrammi a raffica
Con lei Donizetti era felice. “La mia sublime Pasta… la sola che fa parer bello anche il brutto” scriverà anni dopo a Celestino Salvatori. Resterà in casa sua un mese intero, dal 10 novembre al 10 dicembre, lavorando mano nella mano, e componendo velocissimamente la partitura dell’Anna Bolena. La collaborazione con Giuditta Passa sarà strettissima. Il soprano interferiva senza complessi, indicando a Donizetti cosa cambiare, cosa smussare, cosa tenere, spiegandogli cosa andava bene e cosa invece era inadatto alla sua voce. Sarà lei per esempio a suggerire la parodia di “Home sweet home”, un’aria tratta da un’opera di Henry R. Bishop, Clari The Maid of Milan, che verrà trapiantata nel finale del secondo atto, durante la preghiera di Anna dalla linea melodica soave, quando in pieno delirio sviene prima di venire immolata “Cielo: a’ miei lunghi spasimi / concedi alfin riposo / e questi estremi palpiti / siano di speranza almen”.
La complicità stimola Donizetti a creare una figura complessa, contraddittoria, lacerata tra il tormento sentimentale verso il re suo marito, Enrico VIII, l’inclinazione fuori controllo nei confronti di Percy, il cortigiano che, graziato dal re, ritorna dall’esilio per ritrovare, disperato, il primo amore senza poterlo riconquistare, e l’amicizia per Jane Seymour, la dama di corte piena di rimorsi per il tradimento in corso, che le confessa di essere proprio lei la nuova eletta nel cuore del re. Gli ingredienti del dramma sono tutti qui e si cristallizzano in una scena nodale dove le aspettative contrastanti, gli errori, i passi falsi, e le finali agnizioni diventano le premesse di un conflitto che rende la tragedia ineluttabile, come insegnava Manzoni, perché convergono inesorabilmente verso la catastrofe finale.
“La mia sublime Pasta…”: Donizetti si fermò nella casa del celebre soprano un mese intero, lavorando mano nella mano
Il battesimo dell’Anna Bolena al Teatro Carcano, il 26 dicembre 1830, fu memorabile, al punto da stracciare la prima alla Scala dei Capuleti e i Montecchi di Bellini. Oltre la Pasta e Rubini, nel ruolo di Anna e di Percy, gli amanti indissolubili condannati per tradimento, il cast includeva Filippo Galli nel ruolo di Enrico VIII e Elisa Orlandi in quello di Giovanna Seymour. Donizetti era entusiasta, anche se dopo la prima introdusse una serie di modifiche alla partitura, come quella dell’episodio di apertura, o la sostituzione del duetto originario, e altri tagli e alleggerimenti ricostruiti in dettaglio da Philip Gosset.
“Successo, trionfo, delirio, pareva che il pubblico fosse impazzito, tutti dicono che non ricordano di aver assistito mai a un trionfo siffatto”, scrisse il compositore nell’unica lettera indirizzata all’adorata moglie, di cui del resto si ignora dove sia l’autografo, tant’è che gli specialisti la considerano apocrifa. “Io ero così felice che mi veniva da piangere, pensa! E il mio cuore veniva verso di te e pensavo alla tua gioia se tu fossi stata presente, ma sai che non voglio esporti ad emozioni così forti, perché s’ha un bel dire, ma sono emozioni che par di morire, quando ancora non si è sicuri dell’esito. Pur avendo fiducia in un esito favorevole, perché tutti parlavano bene dell’opera, artisti e orchestra e persino gli impresari, nel primo quarto d’ora sono stato sospeso tra paradiso e inferno… Adesso sono in paradiso e non ti dico il mio contento; mi manca solo un bacio della mia Virginia, che verrà a cogliere al più presto: ti prego dunque, deh te ’n priego, come direbbe il Romani, di preparami l’accoglienza che si merita un gran maestro che pien d’estro appena a casa per prima cosa vorrà abbracciare la propria sposa”.