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Dannati diamanti

Maurizio Stefanini

Da Flaubert a Marilyn e Bond, fino alla truffa dei beni rifugio. Appunti sui “migliori amici di una ragazza”. Che restano più che altro gioielli

"Diamond is the last uncommoditized commodity, and so it’s drawing in many organizations. I assume that by the end of this year there will be a bunch of them out”: difficile tradurre in italiano questa frase pronunciata nell’aprile del 2012 da quell’Edahn Golan che come direttore del portale di dati Idex on line era considerato il massimo esperto mondiale dell’industria diamantifera. Ma le vicende di quella che è ormai definita “truffa dei diamanti” dimostrano come, in realtà, era ancora più difficile tradurla nella pratica.

 

I responsabili del gigante De Beers spiegavano: il diamante deve essere un gioiello, non un investimento. Difficile trattarli come commodity

L’industria del taglio più importante in India. La “capitale mondiale” fino al Seicento Venezia, poi Amsterdam e oggi Anversa

Bisogna partire dalla definizione di commodity come “bene per cui c’è domanda ma che è offerto senza differenze qualitative sul mercato ed è fungibile, cioè il prodotto è lo stesso indipendentemente da chi lo produce, come per esempio il petrolio o i metalli”. Dal francese commodité: col significato di ottenibile comodamente, pratico. Una commodity deve essere facilmente immagazzinabile e conservabile nel tempo, cioè non perdere le caratteristiche originarie. E l’elevata standardizzazione che caratterizza una commodity e ne consente l’agevole negoziazione sui mercati internazionali. Per questo le commodity possono costituire un’attività sottostante per vari tipi di strumenti derivati, in particolare per i futures. I diamanti, osservava Golan, erano una commodity non ancora trattata come tale: l’ultima. Ma molte organizzazioni stavano appunto ragionando su come rimediare a questa eccezione, e la sua previsione era dunque che entro la fine del 2012 molti operatori avrebbero provato a lanciare i diamanti come investimento.

 

Attenzione alla data. Effettivamente, nel 2012 iniziano a operare la Intermarket Diamond Business di Milano, ora fallita, e la Diamond Private Investment di Roma: le due società che assieme a Banco Bpm, Banca Aletti, UniCredit, Intesa Sanpaolo e Monte dei Paschi sono state coinvolte nel sequestro preventivo di 700 milioni di euro disposto martedì scorso dalla Guardia di finanza nell’ambito di un’inchiesta aperta dalla procura di Milano per i reati di truffa aggravata e autoriciclaggio sulla vendita di diamanti attraverso i canali bancari a prezzi superiori rispetto al loro valore.

 

Per quattro anni Idb e Dpi attraverso quelle banche avrebbero infatti venduto diamanti presentandoli come una forma di investimento sicuro da speculazioni e oscillazioni di mercato. Ma il prezzo delle pietre, secondo la procura, sarebbe stato gonfiato proprio con la complicità delle banche, che agivano da intermediarie e che promuovevano quegli stessi investimenti ai loro correntisti. Primatista tra alcune decine di migliaia di vittime Vasco Rossi, che come da suoi auspici è riuscito effettivamente ad avere una vita spericolata per lo meno da investitore, rimettendoci due milioni e mezzo di euro. Ma tra i truffati ci sarebbero anche altri vip come l’industriale Diana Bracco, la conduttrice tv Federica Panicucci e la ex showgirl Simona Tagli.

 

I diamanti erano quindi presentati come un bene rifugio in grado di offrire rendimenti del 3-4 per cento, molto più di qualsiasi titolo di stato. Le cifre però, contrabbandate come quotazioni di mercato nelle pagine dei titoli di Borsa, facevano parte di un listino prezzi pubblicato a pagamento. In realtà, il valore effettivo dei diamanti sul mercato è quello stimato dalla già citata Idex, o dall’altro listino di riferimento Rapaport. E da queste quotazione salta fuori che il valore reale dei diamanti oscillava tra il 30 e il 50 per cento di quanto pagato dal cliente. “Il diamante non deve essere proposto come gioiello, ma come investimento” è la frase di un dirigente bancario a un collega come risulta da una delle intercettazione: una direttiva promossa anche con la concessione di benefit a chi riusciva a piazzare i preziosi. Da viaggi premio a gioielli appunto di diamanti. Una frase opposta a quanto i giornalisti si sentivano tradizionalmente spiegare dai responsabili della De Beers: “Il diamante deve essere un gioiello, non un investimento”. E la De Beers è quel gigante diamantifero sudafricano che a un certo punto attraverso la sua Central Selling Organization (Cso) arrivò a controllare l’80 per cento della commercializzazione mondiale, e a cui si deve il famoso slogan “Un diamante è per sempre”.

 

Non sono peraltro queste le uniche frasi che hanno fatto la storia dei diamanti. “Indomabile”, nel senso di “non tagliabile”, è il significato esatto della parola greca adámas. “Per rompere un diamante bisogna prima bagnarlo di sangue umano”, sosteneva nel I secolo d. C. Plinio. In realtà, ci vuole un altro diamante: cosparso di polvere di diamante e olio di oliva, secondo il sistema inventato nel 1456 dal gioielliere fiammingo Lodewyk van Berken. Ma la metafora sui diamanti di sangue, “Blood Diamond”, è passata a indicare qualcos’altro a partire dal film con Leonardo DiCaprio del 2006, che parlava appunto di quella guerra civile del 1996-2001 in cui la Sierra Leone era stata contesa da fazioni armate che si finanziavano col contrabbando di diamanti, secondo uno schema già visto in altri paesi: dall’Angola alla Repubblica Democratica del Congo, passando per Liberia e Costa d’Avorio. Per questo nel 2000 si arrivò a quella Conferenza di Kimberley in cui fu inventato uno schema di certificazione, appunto per verificarne la provenienza.

 

“Diamanti. Dire che non sono che carbone. Dire che si finirà per fabbricarli” era il consiglio beffardo che dava nel 1869 Gustave Flaubert nel suo “Dizionario dei luoghi comuni”. “A diamond is forever”, la famosa linea pubblicitaria coniata nel 1947 da Frances Gerety per De Beers, divenne anche come “Diamonds Are Forever” un romanzo di Ian Fleming del 1956 e un film del 1971: in italiano, “Agente 007 - Una cascata di diamanti”. Dove il supercattivo Ernst Stavro Blofeld fa incetta di diamanti per fabbricare un superlaser in grado di distruggere le armi nucleari in Cina, Unione Sovietica e Stati Uniti, in modo da proporre un’asta internazionale per la supremazia nucleare globale. Ma “i diamanti sono i migliori amici di una ragazza” ricordava anche la canzone cantata da Marilyn Monroe in “Gli uomini preferiscono le bionde”. “Non sono due mesi di stipendio un prezzo molto basso da pagare per una cosa che dura per sempre?”, era un altro famoso slogan della De Beers. La previsione di Flaubert si è poi avverata, e a differenza della trasmutazione dell’oro tanto sognata dagli alchimisti: i diamanti artificiali sono oggi una realtà. Ma vengono fuori piccoli, e di qualità inferiore. Così, sono utilizzati solo per scopi industriali: seghe; dischi abrasivi; trapani; perforatrici; rasoi; lenti ottiche; semiconduttori; strumenti di precisione per aeronautica, astronautica ed elettronica; sonde petrolifere…

 

Se i diamanti hanno perso di valore non è stato però per questa mefistofelica irruzione dell’uomo nei sentieri della natura. Semplicemente, sono state le moderne tecniche di ricerca a moltiplicarne i luoghi di estrazione. In antichità, venivano solo dall’India. Anche se la proverbiale frase su “tutti i tesori di Golconda” non si riferisce a un centro minerario, ma solo alla città dove c’era la prima ancestrale borsa in cui i mercanti trattavano le pietre estratte in tutto il sub-continente. Fu solo nel 1726 che si aggiunse la regione brasiliana chiamata appunto Minas Gerais, “Miniere generali”. E fu solo nel 1866 che un ragazzino dell’attuale Sudafrica fu scoperto a giocare a biglie con alcune inequivocabili pietruzze lucenti. In Sudafrica però i giacimenti erano in profondità, e per sfruttarli fu necessario utilizzare le tecnologie e i finanziamenti da cui emerse appunto la De Beers: gigante diamantifero appartenente come il gigante dell’oro Anglo American alla famiglia Oppenheimer.

 

Ebrea tedesca di origine anche se poi convertita all’anglicanesimo, ormai arrivata alla terza generazione dal self made man Ernest al figlio Harry e al nipote Nicky, la dynasty Oppenheimer oltre ad arrivare a un certo punto a possedere tra il 60 e l’80 per cento di tutto quanto poteva essere posseduto in Sudafrica ha avuto anche un importante ruolo politico, come finanziatrice del partito liberale bianco anti apartheid e come regista neanche troppo occulta della finale transizione verso la democrazia multirazziale. E a livello mondiale attraverso consociate e accordi negli anni Novanta era arrivata, come già detto, a controllare l’80 per cento della commercializzazione mondiale. Ma poi fu costretta a un drastico ridimensionamento: un po’ dall’antitrust Usa; un po’ per essere stata coinvolta nello scandalo dei “diamanti di sangue”. Comunque, tratta ancora almeno il 35 per cento del mercato. Il suo principale concorrente è con il 27 per cento di quota la Alrosa, appartenente in maggioranza al governo della Federazione russa. Quota sotto al 10 per cento hanno i due conglomerati anglo-australiani Rio Tinto e Bhp Bill e la canadese Dominion Diamonds.

 

“Dire che non sono che carbone. Dire che si finirà per fabbricarli”, i consigli beffardi nel “Dizionario dei luoghi comuni”

Le moderne tecniche di ricerca ne hanno moltiplicato i luoghi di estrazione. Gli Oppenheimer (35 per cento del mercato) e il Sudafrica

Quanto alla lista dei paesi produttori, pur variando di anno in anno a seconda che i prezzi rendano o no conveniente lo sfruttamento delle miniere più marginali, comprende tra i venti e i trenta nomi. Tra questi, i supersfruttati giacimenti indiani e brasiliani non occupano più un posto di rilievo. In Brasile, come ricordo di quei tempi eroici, resta una piccola industria del taglio e un diamante nella bandiera nazionale. L’India, senza simboli, ha in compenso un’industria del taglio molto più consistente. Anzi, la prima al mondo: 900.000 persone che lavorano in particolare a Surat in Gujarat, producendo il 92 per cento di tutti i diamanti tagliati e lucidati. Questa recente espansione, che impiega manodopera a basso costo, ha consentito di preparare diamanti più piccoli come gemme in quantità maggiori rispetto a quanto prima fosse economicamente fattibile nei tradizionali centri di taglio del diamante di Anversa, Amsterdam, Johannesburg, New York, Tel Aviv e Londra. Così come Surat è abile nelle gemme più piccole, il Diamond District di New York è specializzato in grandi; il distretto dei diamanti di Anversa, in Belgio, dove si trova l’Istituto gemmologico internazionale, in quelli difficili; Tel Aviv in quelle medie. Inoltre, al fine di abbassare i prezzi, diverse società commerciali di diamanti hanno iniziato a stabilire impianti di lucidatura in Cina, India, Tailandia, Namibia e Botswana. Un dato curioso è che gli specialisti nel taglio sono comunque tradizionalmente appartenenti a determinate minoranze religiose: ebrei ad Anversa, New York e ovviamente Tel Aviv; jaina in India.

 

Il Sudafrica nel 2016 è stato il settimo produttore mondiale, con 8,4 milioni di carati, in una classifica che vede in testa la Russia: 40 dei 121,6 milioni di carati della produzione mondiale, tutti provenienti da quella regione siberiana il cui nome ufficiale è Sakha, ma che i giocatori di Risiko conoscono come Jacuzia. Seguono poi il Botswana con 20,9, l’Australia con 13,9, la Repubblica Democratica del Congo con 12,3, il Canada con 11,1, l’Angola con 9. Poi, dopo il Sudafrica, vengono lo Zimbabwe con 2,1, la Namibia con 1,5 e la Sierra Leone con 0,5. Vanno poi ricordate le 28 borse del diamante registrate nel mondo, organizzate dal 1947 in una Federazione mondiale delle borse di diamante (Gfdb). Ma l’80 per cento dei diamanti grezzi, il 50 per cento di quelli tagliati e oltre il 50 per cento di tutti i diamanti grezzi, tagliati e industriali combinati sono gestiti ad Anversa, di fatto “capitale mondiale dei diamanti”. Un primato conquistato dopo la Prima guerra mondiale, quando il governo olandese impose un aumento delle tasse che causò la fuga in Belgio di operatori e tagliatori da Amsterdam, precedente “capitale mondiale dei diamanti” da quando nel XVII secolo aveva tolto questo titolo da Venezia. Tuttavia, quando i diamanti passano ai gioiellieri da montare per la vendita finale, l’artigianato italiano mantiene un primato per i prodotti di qualità, in particolare quelli di Valenza Po. Non per quantità, dove imperano i gioielli indiani, con i loro prezzi stracciati.

 

Da Tel Aviv era infine arrivata l’idea di una Bitcoin agganciata al locale centro di intaglio di diamanti: anzi due, entrambi della startup Carats.Io. La Cut: strumento di pagamento tra i professionisti del settore il Carat, rivolto a un grande pubblico voglioso di investire in diamanti anche senza doverli gestire fisicamente. Entrambi basati tra il 25 e il 75 per cento su diamanti reali, certificati e depositati alla Borsa dei diamanti di Tel Aviv. “Diamanti al popolo”, è lo slogan. Insomma, l’idea di usare il diamante come investimento aleggia sempre. Ma, appunto, per ora non decolla veramente, proprio perché il mercato resta legato ai soli operatori. D’altronde, prima ancora che venisse lanciato lo slogan della “commodity da commoditizzare” nel dicembre del 2011 ci aveva già provato Francesco Belsito a investire in diamanti i finanziamento della Lega. E su come andò a finire, Salvini potrebbe tuttora riferire per lo meno 49 milioni di motivi di rammarico.

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