Rileggere Havel per capire il falso conflitto tra popolo ed élite
Una polarizzazione menzognera e fuorviante, errata nei suoi presupposti. Lo dimostra la storia del dissidente cecoslovacco
Una bufala s’aggira per la rete, e da lì rimbalza nei dibattiti più o meno dotti a cui si applicano notisti politici e politologi, chierici e laici, sociologi e intellettuali vari: lo scontro tra élite e popolo. Una bufala indotta da chi, in nome del popolo, ben si guarda dall’identificarsi con la nuova élite, pur muovendosi con la stessa logica di quella vecchia sia in termini di occupazione del potere (leggi nomine) sia nel tentativo di determinare i diversi parametri di una nuova egemonia culturale, anche se con modalità ritenute rozze dagli apparentemente più raffinati cultori della supposta superiorità morale e culturale della sinistra che fu. Lo sdoganamento della libertà di rutto nel dibattito pubblico e dell’uso della definizione di “radical chic” come un insulto non è diverso dall’apostrofare come “fascista” chiunque dissentisse da una certa ortodossia di cui molti si sono sentiti per molto tempo sacerdoti.
Ultimo atto di accreditamento di questa tesi che contrappone popolo a élite è stato il Festival (nazional-popolare?) di Sanremo. Ecco la sentenza di Luigi Di Maio: “Ringrazio Sanremo perché quest’anno ha fatto conoscere a milioni di italiani la distanza abissale che c’è tra popolo ed élite. Tra le sensibilità dei cittadini comuni e quelle dei radical chic. Per l’anno prossimo, magari, il vincitore si potrebbe far scegliere solo col televoto, visto che agli italiani costa cinquantuno centesimi facciamolo contare”. Bene, anzi, male. Perché quella tra popolo ed élite è un’alternativa falsa, menzognera e fuorviante; errata nei suoi presupposti, che identificano il popolo con il televoto e le preferenze online, con i like e l’audience, riducendolo a un agglomerato quantitativo mosso solo da interessi, un utilitarismo che ben si evidenzia nel continuo richiamo monetario dei leader grillini: il voto del teleutente non ha valore perché è libera espressione del pensiero, ma perché gli costa cinquantuno centesimi.
L’utilitarismo aggrega occasionalmente masse erratiche, mentre non c’è realtà di popolo se non intorno a un ideale
L’utilitarismo aggrega temporaneamente e occasionalmente masse erratiche, mentre non c’è realtà di popolo se non intorno a un ideale che si concretizza in un’esperienza. Meglio di me lo diceva don Luigi Giussani nel 1992, altro periodo della nostra recente storia in cui si fomentava la contrapposizione tra élite e popolo: “Un ideale di vita umana o più umana, non può non suscitare l’interesse della gente, che in qualche modo si riconosce amica e collabora in vista di un percepito o supposto ideale di migliore umanità e cerca di trovare anche gli strumenti per realizzare questo ideale. Questo è un popolo”.
Detto per inciso, per capire che cos’è un popolo e di quale concretezza sia fatto un ideale basta guardare, senza le simpatie o le antipatie suscitate dalle politiche dei governi, la storia di Israele: Abramo, l’esodo, l’esilio, il ritorno, la diaspora, il sionismo degli ultimi due secoli, la tragedia della Shoah, la nascita di uno stato. Ma c’è un altro esempio molto vicino a noi, sono passati solo trent’anni, che svela la mistificazione dell’antitesi popolo-élite, ed è l’esperienza del dissenso nei paesi dell’est europeo negli anni Settanta del secolo scorso, in specie quella dei dissidenti cecoslovacchi e di Václav Havel, drammaturgo praghese a lungo incarcerato dal regime comunista, fondatore e animatore di Charta 77, artefice e protagonista della Rivoluzione di velluto sino a diventare, nel novembre 1989, presidente della Cecoslovacchia. Un grande del Novecento al pari dei padri fondatori dell’Europa unita, un uomo che ha sconfitto il totalitarismo comunista senza sparare un colpo di pistola e del cui pensiero sinistra e destra fanno fatica a impossessarsi tanto è pura, realista, popolare e insieme elitaria (ha vissuto per tredici anni nel Castello di Praga, il più grande del mondo) è la sua posizione.
Nel discorso di Capodanno del 1990, era appena stato eletto presidente, disse: “Impariamo gli uni dagli altri che la politica non può essere solo l’arte del possibile, ossia della speculazione, del calcolo, dell’intrigo, degli accordi segreti e dei raggiri utilitaristici, ma che piuttosto deve esser l’arte dell’impossibile, cioè l’arte di rendere migliori se stessi e il mondo”. L’arte dell’ideale.
Vaclav Havel in una foto del 2002 (Foto LaPresse)
Ebbene, non quando presiedeva dal Castello, ma quando lui e i suoi amici resistevano al potere totalitario e ideologico che schiacciava e conformava a sé il popolo, i dissidenti venivano guardati sia dal sistema che li incarcerava sia dall’occidente libero che non li capiva come un’élite. E’ lui stesso a denunciarlo nel suo bellissimo Il potere dei senza potere, di cui consiglio a tutti, a quarant’anni dalla prima pubblicazione in Italia, dove giunse clandestinamente, la lettura o, per i più agées, la rilettura. “Dissidente” è definizione che non è mai piaciuta ai dissidenti, è stata affibbiata loro dai giornalisti occidentali quasi fosse una professione, una “speciale categoria sociale”, sino al trionfo dell’“idea che i ‘dissidenti’ sono una specie di élite”. Mentre per Havel “la dissidenza non è una professione, anche se uno le dedicasse ventiquattro ore al giorno; è invece e soprattutto una posizione esistenziale”, che “si riferisce all’interesse per l’altro, per ciò che la realtà nel suo insieme soffre”.
E’ necessario essere chiari: la figura descritta da Havel è lontanissima dall’intellettuale organico di gramsciana memoria
La preoccupazione principale del dissidente non è la conquista del potere o il rovesciamento del regime ma il tentativo serio di “vivere nella verità”. Per questo “in genere l’uomo si accorge e prende coscienza di essere ‘dissidente’ quando lo è già da un pezzo, e questa situazione è l’esito delle concrete prese di posizione nella vita”. Icona di questi dissidenti incoscienti è il birraio boemo, il dirigente del birrificio Krakonos, in cui Havel lavorò nel 1974 (così si mantenevano gli scrittori sotto il regime comunista): “Un certo S., un intenditore, un uomo che aveva orgoglio professionale e teneva molto al fatto che da noi si producesse buona birra” e mal sopportava che i funzionari politici preposti alla guida della fabbrica ne avessero dimezzato la produzione. S. proponeva migliorie, denunciava disfunzioni; non solo non lo ascoltavano, lo licenziarono. Per Havel si tratta di “un caso paradigmatico”. “Un uomo non diventa ‘dissidente’ perché un bel giorno decide di intraprendere questa stravagante carriera, ma perché la responsabilità interiore combinata con tutto il complesso delle circostanze esterne finisce per inchiodarlo a questa posizione”. Uno che aveva “né più né meno che l’intenzione di fare bene il proprio lavoro”.
Sono “migliaia [gli] individui anonimi che tentano di vivere nella verità” e “milioni coloro che nella verità vorrebbero vivere ma non possono”, tra questi le circostanze fanno emergere chi è stato portato a “uno scontro aperto con il potere”. E se questi pochi hanno “un briciolo di autorità” “non è certo perché il governo abbia in grande considerazione questo gruppuscolo esclusivo e le sue esclusive riflessioni”, ma “perché avverte quel potenziale potere politico che è la vita nella verità”, perché “avverte da che mondo nasce ciò che questo gruppo fa e a che mondo si rivolge: al mondo della quotidianità umana, della quotidiana tensione fra intenzioni della vita e intenzioni del sistema”.
Per evitare ogni fraintendimento, ché l’ambiguità delle parole è la loro ricchezza ma può essere il loro limite, Havel esplicita: “Quando parlo di vita nella verità non penso naturalmente soltanto a riflessioni ideali, ad esempio a una protesta o a una lettera sottoscritta da un gruppo di intellettuali, può esserlo tutto quello con cui il singolo o un gruppo di persone si ribella alla propria manipolazione: dalla lettera degli intellettuali allo sciopero degli operai, dal concerto rock alla manifestazione studentesca, dal rifiuto di partecipare alla farsa elettorale attraverso una presa di posizione franca in qualche riunione ufficiale, fino allo sciopero della fame. […] Ogni libera espressione di vita è, indirettamente, una minaccia politica”.
Per rendere esplicito il significato di questo legame tra (possiamo dirlo?) un’élite e il popolo Havel porta l’esempio di Aleksandr Solgenitsin: la sua forza politica “non consiste in un suo esclusivo potere politico come singolo, ma nell’esperienza di milioni di vittime del Gulag che egli ha gridato ad alta voce e con cui si è rivolto ad altri milioni di uomini di buona volontà”. Credo sia evidente a tutti, ma prevenire il tentativo di paragone è dovere di prudenza, che la figura descritta da Havel è lontanissima dall’intellettuale organico di gramsciana memoria e che la “vita nella verità” è cosa affatto diversa dalla conquista dell’egemonia culturale.
La preoccupazione principale del dissidente non è il rovesciamento del regime, bensì il tentativo serio di “vivere nella verità”
Il dissenso, considerato in occidente fenomeno elitario, è diventato così nel tempo fattore determinate del cambiamento anche politico – insieme ad altri ovviamente, Havel non sottovaluta assolutamente la situazione economica, le pressioni internazionali, gli interessi stranieri – perché il suo punto di partenza è stato “sempre e soprattutto l’azione sulla società (e non direttamente e subito la struttura del potere in quanto tale): le iniziative indipendenti si rivolgono alla ‘sfera segreta’ (la segreta apertura alla verità che c’è nella coscienza di ogni uomo e, dormiente, nella società, quelle che Havel chiama “le segrete intenzioni della vita”, ndr), indicano la vita nella verità come alternativa umana e sociale e le ottengono uno spazio; facilitano – naturalmente sempre in modo indiretto – il ridestarsi dell’autocoscienza civile; lacerano il mondo dell’apparenza e smascherano il vero carattere del potere. Non assumono il ruolo messianico di una qualche ‘avanguardia’ sociale o élite, che da sola sa meglio di tutti come stanno le cose e il cui compito è ‘sensibilizzare’ le masse ‘ignoranti’; non vogliono guidare nessuno, lasciano a ciascuno di ispirarsi oppure no alle loro esperienze e al loro lavoro”.
Ogni popolo, è amaro dirlo, ha storicamente l’élite che si merita, e a generazioni a cui non è stato dato niente se non un’apprensione utilitaristica non si può chiedere lo slancio ideale che ha animato, ad esempio, la ricostruzione dell’Italia dopo la disfatta della Seconda guerra mondiale se non appellandosi alla “sfera segreta” che resiste in ogni uomo e in ogni società sotto l’apparenza del nuovo potere. Riaprendo l’inciso di cui sopra, si pensi al concetto di “resto di Israele”.
“La politica non può essere solo l’arte del possibile ma deve essere l’arte dell’impossibile, cioè l’arte di rendere migliori se stessi e il mondo”
C’è molto da ricostruire, non ci sono scorciatoie, ci sono occasioni da sfruttare – l’incompetenza di chi ci governa, le contraddizioni tra loro e con la realtà sempre più evidenti, le scadenze elettorali, ma l’orizzonte deve essere largo e profondo, più vasto della prossima maggioranza politica, più ampio ancora – per dirla sempre con Havel – “dell’orizzonte infinitamente importante della mia esistenza”, l’orizzonte “più irreale, il più astratto, il più dissimulato, il più difficile da afferrare, e insieme, ma paradossalmente, il più certo (esiste quando anche tutto crolla davvero), un orizzonte che, in quanto proiezione metafisica della vita ne definisce il significato”. Parole dal carcere di un uomo che ha vissuto la politica come continuazione della vita con altri mezzi.