Il mare di Pavese
E’ l’altrove della solitudine, dove la vita è un’eterna dolorosa giovinezza Come tornare ad apprezzare lo scrittore: appunti per adolescenti d’oggi
Oggi, sabato 2 marzo, alle 11, allo Spazio Alfieri in via dell’Ulivo 6, a Firenze, “Nadia Terranova racconta Cesare Pavese”. E’ il sesto appuntamento nell’ambito della rassegna “Scrittori raccontano scrittori” organizzata dal Gabinetto Vieusseux a cura di Alba Donati e Gloria Manghetti.
C’è una pagina, in uno dei romanzi che preferisco di Cesare Pavese e che lui invece liquidava come anomalo e minore, che credo di aver citato mille volte, ogni volta che comincio a parlare delle primitive ragioni che mi hanno fatto innamorare della sua letteratura. Il libro è La spiaggia (da lui definito “il mio romanzetto non brutale, non proletario e non americano”), e la scena è a pagina cinquantadue dell’attuale edizione Einaudi: Clelia, la donna di cui il protagonista subisce il fascino, sposata all’amico Doro e nel mezzo di una crisi matrimoniale, svela come mai quando nuota non vuole nessuno vicino: “Mi aveva spiegato che lei tutto faceva in pubblico, ma col mare se la vedeva da sola. – Ma è strano. – E’ strano ma è così. – Nuotava bene e non era per imbarazzo. Era una sua decisione. – La compagnia del mare mi basta. Non voglio nessuno. Nella vita non ho niente di mio. Mi lasci almeno il mare. – Si allontanò nuotando senza muovere l’acqua, e al suo ritorno l’aspettavo sulla sabbia. Tornai sul discorso, e Clelia alle mie proteste aveva risposto con un mezzo sorriso. – Neanche con Doro? – chiesi. – Neanche con Doro”. Così, grazie a questa pagina, posso scalfire la superficie della prima immagine di Pavese, la più ovvia, e quando qualcuno si stampa sulla faccia un ricordo scolastico, un’espressione che sottintende “ah, il narratore delle colline”, io rispondo citando il mare e la più esatta descrizione che lui ne diede: la solitudine. Certo, Pavese è nato nelle Langhe e poi le ha inventate, proprio come Giorgio Bassani ha inventato Ferrara e Dino Buzzati Milano, eppure qui siamo in un altrove opposto, dentro un lido: è lì che scendendo dalle colline ha saputo raccontare l’imbarazzo e la curiosità dei corpi, un certo misterioso guardarsi e mostrarsi e ritrarsi fra amici sulla battigia, le conversazioni segrete e quella confidenza spietata che si materializza soltanto fra semisconosciuti sul bagnasciuga.
In una foto trasforma il suo disagio quotidiano nella finzione più urticante e consueta, il tentativo di mostrarsi uguale a tutti gli altri
C’è una foto di Pavese su una barca, ha i capelli coperti da un fazzoletto annodato sulla nuca come un pirata, è mezzo nudo con una baldanza che è in realtà vergogna dissimulata, contrae il viso esagerando lo sforzo del remare, strizza un poco gli occhi dietro le lenti da vista e intanto trasforma il suo disagio quotidiano nella finzione più urticante, faticosa e consueta, il tentativo di mostrarsi uguale a tutti gli altri. E’ solo, come in tutte le foto che lo ritraggono, anche quelle in cui è in mezzo agli altri, soprattutto quelle. “La sola regola eroica: essere soli soli soli”, annota il 15 ottobre 1940, l’anno in cui conosce Fernanda Pivano e le fa una proposta di matrimonio, che lei rifiuta. Gli è già successo di amare una donna che poi ha sposato un altro, le sue relazioni sentimentali sono battaglie combattute in territori stranieri: “Sono un popolo nemico, le donne, come il popolo tedesco”. Lui le donne le lambisce, le studia e le soffre, fra tenerezze improvvisate e la ferocia degli abbandoni; nei diari è rabbioso, nelle lettere è complice, costruisce i rapporti sull’ironia e intanto lancia invettive, “o con amore o con odio, ma sempre con violenza”, quella è la via che i sentimenti possono percorrere. Se le donne che gli piacciono si concedono a un altro uomo, Pavese esprime tutto il suo disgusto e simula enfatico disinteresse, scredita le loro astuzie, minimizza la sua dipendenza dai loro sguardi, dalle loro risa. E’ una sola, fra tutte quelle amate, il suo romanzo segreto: si chiama Bianca Garufi, è nata a Roma da una famiglia aristocratica siciliana (la madre, sopravvissuta al terremoto di Messina del 1908, è una donna colta e anticonformista) e alterna la vita nella capitale a lunghi periodi sull’isola, sul litorale jonico, a Letojanni. Garufi, per un periodo, collabora con la casa editrice Einaudi e in quel contesto conosce Pavese: come scivolando dentro un rapimento, i due si innamorano in un modo tutto loro, parlano furiosamente di psicoanalisi, di traduzioni, di mitologia. Cominciano a scrivere a quattro mani una storia, Fuoco grande, pubblicata postuma e incompiuta, ma la loro vera opera d’arte è l’epistolario, Una bellissima coppia discorde, curato da Mariarosa Masoero e pubblicato da Olschki. A Cesare toccano incipit e commiati nervosi, insieme alle sgradevolezze più sincere: “Cara Bianca, lo sai benissimo che quand’io scrivo lettere, maltratto”, e ancora “Io trovo molto bello questo maltrattarci insaziabile; è sincero dopotutto e producente – noi siamo una bellissima coppia discorde e il sesso – che dopotutto esiste – si sfoga come può”, e ancora “Addio e guarisci, scema”. E Bianca, spavalda e febbrile: “Io sono sempre più intelligente man mano che mi si confondono le idee o viceversa sono tanto più stupida man mano che mi si chiariscono le idee”, oppure “Adesso non so più cosa significherà per me vederti, quando ti vedrò. Certo si è che navigo in piena oscurità riguardo te e le faccende nostre, non è affatto così semplice come avrei potuto credere, e non è nemmeno una cosa complicata, direi che è primordiale. Anche questo mi fa nausea e mi fa paura. Come la morte, le vertigini, l’angoscia del buio”. Cesare e Bianca parlano di Fuoco grande ma anche di Dialoghi con Leucò, il libro che lui dedica a lei (leukós, bianco), quello in cui Leucotea, divinità greca del candore, dice a Circe: “Nessun uomo capisce noialtre, e la bestia”. In quella frase c’è Cesare che fa dire a Bianca ciò che Bianca pensa di lui, di tutti gli uomini, c’è lui che le affida la parola definitiva sull’impossibilità di conoscere davvero le donne, il nemico.
Per noi lettori che non l’abbiamo conosciuto, il suo suicidio è un’ossessione a vuoto, ne cerchiamo ovunque i presagi, gli indizi
Dialoghi con Leucò è un capolavoro, ed è un altro libro su cui Pavese emette giudizi sdoppiandosi, preso da una furia di controllo che per metà gli deriva dal lavoro editoriale e per l’altra metà dalle sue ossessioni. Pavese sentenzia su Pavese, diventa maniacale nel determinare come i lettori debbano leggere i suoi lavori, il suo percorso. Vuole che il testo sia presentato così: “Cesare Pavese, che molti si ostinano a considerare un testardo narratore realista, specializzato in campagne e periferie americano-piemontesi, ci scopre in questi dialoghi un nuovo aspetto del suo temperamento. (…) Pavese si è ricordato di quand’era a scuola e di quel che leggeva, si è ricordato dei libri che legge ogni giorno, degli unici libri che legge. Ha smesso per un momento di credere che il suo totem e i tabù, i suoi selvaggi, gli spiriti della vegetazione, l’assassinio rituale, la sfera mitica e il culto dei morti fossero inutili bizzarrie e ha voluto cercare in essi il segreto di qualcosa che tutti ricordano, tutti ammirano un po’ straccamente e ci sbadigliano un sorriso”. Non so quanti lettori sbadiglino poi davvero i loro sorrisi dentro queste pagine dense di riflessioni sulla morte, sul tempo, sulla memoria, ma Pavese era capace di schierare felicità feroci a protezione di un dolore sordo, costante. E’ quella capacità che gli riconosce Calvino: “Esiste una storia della felicità di Pavese, d’una felicità nel cuore della tristezza, d’una felicità che nasce con la stessa spinta dell’approfondirsi del dolore, fin che il divario è tanto forte che il faticoso equilibrio si spezza”. L’uomo dai sorrisi tirati, messi su a nascondere un’eterna cupezza, nei diari aveva per sé parole di completa disistima e allo stesso tempo collocava millimetricamente la propria opera nella proiezione postuma della letteratura. Le ultime parole scritte proprio su una copia dei Dialoghi con Leucò, la sera del 27 agosto 1950, all’hotel Roma, ne sono l’ultima testimonianza. E’ la famosa preghiera accorata e strafottente che tutti citano e nessuno ha spiegato meglio di Natalia Ginzburg, “non fate troppi pettegolezzi” come esortazione prima dell’addio: “Guardò anche oltre la sua vita, nei nostri giorni futuri, guardò come si sarebbe comportata la gente, nei confronti dei suoi libri e della sua memoria. Guardò oltre la morte, come quelli che amano la vita e non sanno staccarsene, e pur pensando alla morte vanno immaginando non la morte, ma la vita”.
“Sono un popolo nemico, le donne”. E’ una sola, fra tutte quelle amate, il suo romanzo segreto: si chiama Bianca Garufi
Pavese non avrebbe permesso a niente di coglierlo di sorpresa, nemmeno alla morte. Del resto, per lui lo stupore non è dato dalla novità ma dalla memoria; non avrebbe mai scritto un racconto di viaggio, perché le impressioni immediate non producono letteratura, la letteratura ha bisogno della mediazione e del ricordo, del paese da immaginare e far rinascere perché già una volta vi si è nati. Quel paese dove è sempre festa, dove viene la musica dalle cascine e dalle sartorie, però, come ha scritto Annie Ernaux, “la festa non ha luogo, oppure riesce male”, perché “in Pavese la festa è la forma del tragico, una forma straziante, nella quale l’immagine della felicità è lì, presente, e al contempo perduta in partenza”. Annie Ernaux è una appassionata lettrice di Pavese e ha saputo cogliere nei suoi romanzi il ritratto di un’eterna dolorosa giovinezza: gli adolescenti di oggi, per ricominciare ad apprezzarlo, dovrebbero partire da qui. Era così, un tempo, per altre generazioni sulle quali la tragedia di Pavese esercitava una seduzione simile a quella dei poeti maledetti. Ernesto Ferrero, nel libro di memorie einaudiane I migliori anni della nostra vita (Feltrinelli), ha scritto: “Per me Pavese restava qualcuno che sapeva dar voce ai miei vent’anni. Una specie di fratello maggiore che flirtava con l’idea del suicidio, come può accadere ai ragazzi; che raccontava il sentimento d’incertezza e di scontento che ha in sé l’adolescenza e il suo bisogno d’immenso. Il fingersi adulti, il simulare spregiudicatezza e cinismo”. E’ vero: nessuno come Cesare Pavese, nei romanzi e racconti, nelle poesie, ma anche e soprattutto negli scritti privati, può restituire a un ragazzo quel senso doloroso della sfida, del continuo gioco con la morte che è tipico di tutti i ventenni.
Ferrero scrive anche che Giulio Einaudi non lo perdonò mai davvero per essersi ucciso, per aver tradito l’imperativo di felicità che l’Editore voleva intorno a sé, perché lui invece amava la vita e detestava la morte. Continuò a pubblicarne gli inediti, a lodarne il talento e il rigore, ma della sua vicenda umana non parlava. Giulio Einaudi considerava quella morte una morte contro di lui, una morte che gli era stata sbattuta in faccia, e per difendersi da quella ferita la rese innominabile.
Era capace di schierare felicità feroci a protezione di un dolore sordo, costante. Nei diari aveva per sé parole di completa disistima
Per noi lettori che Pavese non l’abbiamo conosciuto, il suo suicidio è un’ossessione a vuoto, ne cerchiamo ovunque i presagi, gli indizi. Nelle ultime righe dei diari: in quel “non scriverò più”. Nelle ultime parole in assoluto, “perdono tutti e a tutti chiedo perdono”. Nella foto della sera in cui vinse il premio Strega, pochi mesi prima di ammazzarsi, e guardava stranito Maria Bellonci, alla quale l’anno prima aveva dedicato una copia della Bella estate con su scritto “A Maria Bellonci, senza secondi fini”, ed era autentico e ironico al tempo stesso, perché l’ambizione gli apparteneva ma la mondanità no. Nelle foto con Elio Vittorini sempre sorridente mentre lui era sempre accigliato: Vittorini e Pavese, il giorno e la notte dell’Einaudi. Nel protagonista della Casa in collina che dice di sé: “Ci sono negato”, quando deve ammettere che non saprebbe togliere la vita a nessuno. Nella foto con Doris Dowling, sorella dell’attrice Constance che fu l’ultimo amore di Pavese, la sua ultima delusione, scattata nel breve periodo in cui frequentava entrambe come fossero sue, come fossero la sua casa e la sua famiglia e il suo mondo letterario (l’America!), e lì Cesare ride, fiducioso, come se grazie all’amore tutto fosse possibile, persino un’idea di futuro. Come se non ci fosse bisogno di nessun indizio di morte e nessuno potesse mai guastare la festa.