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La critica culturale langue e scandalizza. Un'altra forma di censura

Alfonso Berardinelli

Assuefatti all’uso compulsivo di internet, non ci facciamo più tentare dai libri pericolosi

Mentre cercavo sull’Enciclopedia della letteratura Garzanti la voce Cicerone, per verificare alcuni titoli delle sue orazioni, mi sono imbattuto nella voce Censura e lì sono rimasto per un po’. Mi sono rinfrescato la memoria ma ho anche appreso cose che mi erano sfuggite. Nel corso dei secoli le varie censure di tipo religioso e politico avevano colpito, come tutti sanno, una quantità di opere e autori, ovviamente Giordano Bruno, Copernico, Keplero, Galileo, ma anche vari romanzi: Madame Bovary, Il richiamo della foresta, l’Ulisse, L’amante di Lady Chatterley, Il Maestro e Margherita, Tropico del Cancro, Il dottor Zivago, Ragazzi di vita, La noia e perfino Harry Potter (non viene detto perché). Ma colpiscono e insieme appaiono ovvie le conclusioni della voce: “Un’altra censura oggi molto attiva è quella del mercato: la diffusione di un libro ‘scomodo’ può infatti essere frenata attraverso strategie di marketing, ovviamente ‘a rovescio’. Che si compiaccia in un ottuso conformismo, che inalberi un anticonformismo di facciata esibito ‘perché tutto resti uguale’, o che addirittura osi una totale libertà, conscia che nel caos frastornante le voci ‘pericolose’ si perdono, la censura è ancora al lavoro…”.

 

Evidentemente “nel mondo libero” si è passati da una censura aperta a una censura subdola, di fatto, astutamente mascherata. In passato si era diffusa nella sinistra intelligente un’idea ingegnosa ma non priva di fondamento, secondo cui i regimi totalitari o autoritari che censurano brutalmente, senza pudori, anzi in spirito di propaganda, sono meno ipocriti di quelli liberaldemocratici: e in più mostrano di prendere più sul serio la letteratura e la parola scritta perché le temono, credono davvero nei loro effetti liberatori e critici e dunque se ne difendono con la repressione. Noi invece non temiamo la libertà di parola perché non teniamo in grande considerazione né la parola scritta né la letteratura. Cioè: “Scrivi pure quello che vuoi, tanto noi ce ne freghiamo… Anzi, puoi anche tacere, perché tanto nessuno ti ascolterà”. Come dice l’Enciclopedia Garzanti, “nel caos frastornante le voci pericolose si perdono”. Il libero mercato produce un tale rumore o fracasso di fondo, offre una tale varietà di diversivi e distrazioni, che si fa presto a catturare l’attenzione del grande pubblico trascinandola lontano da libri e autori “scomodi” (un aggettivo che si usò fieramente fino agli anni Sessanta, poi sparì).

 

Ho letto su questo giornale l’articolo di Giulio Meotti sulla censura che dal 1979 colpisce i libri in Iran, dopo l’arrivo dell’ayatollah Khomeini: “Pochi giorni fa, in un hangar a Teheran, è stato scoperto un deposito di mezzo milione di libri. C’erano La fattoria degli animali di Orwell, testi di George Bernard Shaw, l’Iliade e alcuni romanzi di Albert Camus. Questa specie di sepolcro della cultura è uno dei lasciti più terribili della rivoluzione islamica iraniana che ‘celebra’ i suoi quarant’anni”. Nella pratica della censura, l’Iran ha oggi il primato mondiale. L’attuale guida suprema Ali Khamenei paragona i libri “pericolosi” alle droghe. Temo però che in occidente la tendenza sia opposta: invece di leggere libri pericolosi, ci si droga. Del resto l’uso compulsivo di internet via smartphone crea assuefazione peggio del gioco d’azzardo e come una droga, perché non riguarda una minoranza, ma quasi tutti. Non si sono ancora trovati rimedi né pratiche disintossicanti. Dubito che se ne troveranno.

L’economia mondiale giudicherebbe una spaventosa calamità che nel mondo anche un solo milione di persone, su sei miliardi di viventi, smetta di connettersi per una settimana. Che c’entra la censura? E’ che i libri si censurano non soltanto non pubblicandoli, ma non leggendoli, rendendo impensabile sia andarli a cercare che trovare il tempo per leggerli. Siamo infatti liberi di non leggerli, e infatti li leggiamo sempre meno. Non si vieta la lettura di un libro, non si scoraggia la lettura, si dice anzi che è un bene. Ci si limita piuttosto all’essenziale: si fa in modo che ci sia sempre qualcosa di più comodo e veloce da fare.

 

Ho appreso da un articolo di Lorenzo Tomasin uscito sul Sole di domenica 24 (“Testo digitale, tu ci inganni”) che un gruppo internazionale di ricerca sull’E-read è arrivato alla seguente conclusione: “La lettura su schermo, nelle modalità tipiche del cosiddetto e-learning attuale, ha pesanti ripercussioni sulla possibilità di lettura approfondita: cioè sulla piena comprensione dei concetti, sulla loro articolazione e complessità, sulla loro memorizzazione”. Se il testo è costruito per veicolare rapidamente messaggi semplici e schematici adatti al supporto digitale, allora va bene. Ma se si tratta di testi del passato o scritti oggi per la stampa su carta, allora la e-reading se ne lascia sfuggire integrità e sfumature. Insomma: se vogliamo continuare a leggere, a capire ciò che è stato scritto nell’arco di trenta secoli, la lettura concentrata e lenta è un rituale che non si può evitare senza seri danni.

 
E ora un piccolo caso personale, che certo non ha a che fare con la censura ma con la scarsa tolleranza che si sta diffondendo, proprio in ambienti culturali, nei confronti della critica letteraria e culturale in genere. Sull’Espresso sempre del 24 febbraio, leggo un’intervista di Marco Damilano al narratore spagnolo Javier Cercas intitolata “Eroe è chi dice no”. Fra intervistato e intervistatore si vola alto, molto alto, così alto che non si capisce dove siamo. Per esempio Damilano domanda: “Cosa significa dire la verità, per un intellettuale, uno scrittore o un giornalista? C’è ancora la possibilità di dirla?”. Javier Cercas risponde: “Non soltanto è possibile dirla: è indispensabile. Il motivo è che la verità fabbrica uomini e donne liberi, mentre la menzogna fabbrica soltanto schiavi (…). Grazie al potere crescente, pervasivo, dei mezzi di comunicazione, la menzogna ha una capacità di diffusione più grande che mai (…). Perciò mi fa infuriare sentir dire che il giornalismo è morto. In realtà, il giornalismo – il buon giornalismo – è più necessario che mai”.

  
Complimenti. Non si può non essere d’accordo. Sarebbe d’accordo, in linea teorica e di principio, perfino un bugiardo di professione. E poi si sa che il buon giornalismo è sempre quello che facciamo noi, mentre quello cattivo e menzognero lo fanno quelli con cui non andiamo d’accordo. Vengo ora al mio caso, che riguarda la critica culturale. La critica politica abbonda, è considerata naturale. Quella culturale scarseggia, langue, scandalizza, viene denigrata. In un articolo uscito sul País nel luglio scorso, lo stesso Javier Cercas, che loda la verità, ha attaccato un mio libro uscito in Spagna ben due anni prima intitolato Leggere è un rischio, accusandomi di essere un critico teppista o picchiatore (“maton” in spagnolo).

 

Perché questo? Perché non apprezzavo Umberto Eco, perché consideravo Borges e Calvino più stilisti del racconto (come realmente sono) che romanzieri, perché avevo qualche dubbio su Foster Wallace e perché di fronte ai fanatici di Joyce mi veniva nostalgia di Henry Miller. Innocenti idiosincrasie. Certamente non erano la verità contrapposta alla menzogna, né menzogne contrapposte alla verità, ma solo preferenze e interpretazioni personali. La critica culturale e letteraria va incoraggiata e praticata non perché dica eroicamente la verità smascherando eroicamente le menzogne del potere, ma perché cerca di capire il rapporto fra realtà e falsificazione, ridicolizzando qualche enfatica bugia. Comincia intanto a succedere che libri di critica che criticano vengano rifiutati dagli editori. 

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