I miei mali di dentro e di fuori
Somatizzare. Una cefalea, i farmaci e la ricerca di un modo possibile per rendere piena di vita anche la paura
Nei primi minuti de Il sesto senso, film del ’99 di Shyamalan, Malcolm Crowe, noto psicologo infantile, scopre un’effrazione in casa al ritorno da una serata in cui è stato premiato per il suo lavoro. I vetri della camera da letto sono infranti, a terra. In camera non c’è nessuno. In bagno, però, qualcuno c’è: un giovane uomo, in evidente stato di agitazione. Seminudo, in lacrime, tremante, dice a Malcolm che, da piccolo, è stato un suo paziente. Ma lo psicologo non è riuscito a curarlo, il giovane sta molto male, è palesemente fuori di sé. “Quante cose non sai”, gli dice. Poi si rivolge a Malcolm e sua moglie: “Sapete perché uno ha paura quando è solo? Io sì”. E, guardandoli negli occhi, aggiunge: “Non voglio più avere paura”.
“Sa come finisce la scena?”, ho sussurrato. “Come?”, ha chiesto lei. “Il ragazzo dice allo psicologo: ‘Mi hai abbandonato’. E gli spara”
Non darsi sempre tutte le colpe, usare la leggerezza, e se non si riesce, la debolezza. Quanta potenza incredibile nasce dalla fragilità
Qualche giorno fa sono stata da una nuova psicoterapeuta. Abbiamo fatto un primo incontro conoscitivo, come di consueto. Alla fine, quando l’ora stava per scadere, le ho raccontato questa storia. “Quel ragazzo mi ha fatto pensare a me”, le ho detto con tono leggero, “per quello che dice sulla paura”. Poi di colpo mi sono fatta molto seria. “Sa come finisce la scena?”, ho sussurrato. “Come?”, ha chiesto lei. “Il ragazzo dice allo psicologo: ‘Mi hai abbandonato’. E gli spara”, le ho detto con occhi molto minacciosi. Quindi, come niente fosse, ho teso la mano, ho ringraziato, e sono andata via: “Alla prossima!”, le ho detto squillante. Una volta fuori mi è venuto da ridere, perché ho scoperto che è una mia reazione tipica dare un’orribile idea di me ai terapeuti da cui decido di andare in cura. Chissà se esiste un nome anche per questo piccolo, sottile piacere senza senso. Chissà se anche questo c’entra col mio mal di testa.
Un insulso mal di testa: è questo il motivo per cui vado in terapia. Mal di testa, potrebbe dire qualcuno, che vuoi che sia un mal di testa. Basta un farmaco da banco e sei guarito. Il problema è che io ho mal di testa da un anno e quattro mesi. Ogni giorno. Quasi ogni ora. Ho provato tutti i farmaci possibili, tutte le cure possibili, mi sono sottoposta a ogni esame possibile. Tac, radiografie, esami della vista, dell’udito, intolleranze alimentari, analisi del sangue, visite da neurologi, nei centri specializzati in cefalea, da ortopedici, osteopati, fisioterapisti, agopuntori, omeopati, maestri di yoga e di tecniche di rilassamento. Ho provato mille regimi alimentari differenti. Cure innovative, come le iniezioni di tossina botulinica. “Botulino?”, mi dicevano tutti, “ma non si usa per ridurre le rughe? Cosa c’entra col mal di testa”. “Sì”, spiegavo, “la tossina botulinica si usa in chirurgia estetica, ma anche nella cura sperimentale della cefalea”. Ormai parlo come un libro, e mentre parlo mi massaggio il collo, nella inutile speranza che dove non ha funzionato la scienza funzioni il calore delle mani. Qualche tempo fa, ho preso un forte colpo in testa. Tutti quelli a cui l’ho raccontato hanno commentato: “Magari per contraccolpo ti passa il tuo mal di testa”.
Il mio mal di testa. L’aggettivo possessivo mi getta nello sconforto: chi mi conosce, ormai non lo chiama più in modo generico, impersonale, il mal di testa. Dice il tuo, il tuo mal di testa. Miei sono i miei occhi marroni, la mia pelle olivastra, mio è il mio carattere, miei sono i miei ricordi. Miei sono i miei genitori, i miei amici. Mie sono le mie paure e le mie speranze. Queste sono cose mie. Non voglio che qualcuno dica tuo in relazione a una cefalea. Mi viene il terrore che non mi passi più.
Ma poi anch’io, quando ne parlo, senza accorgermi uso l’aggettivo possessivo. Se qualcosa è con te, dentro di te, per un anno e mezzo, come potresti non definirlo tuo?
La mia si chiama cefalea tensiva. E, escluse cause fisiche, ci sono quelle psicologiche. La tua ansia. La tua paura (di stare sola, per esempio). I tuoi pensieri catastrofici. E’ per questo che vado da una psicoterapeuta: perché qualcosa, tra il corpo e la mente, si è inceppato. O meglio si è manifestato. Può un dolore di dentro trasformarsi in un dolore di fuori? Sì, certo, lo sappiamo tutti. Ma viverlo è un’altra cosa. Sapere che la cura al tuo dolore fisico è dentro di te, che è tutto nelle tue mani, e che in teoria la cura è cosa semplice – rilàssati! – ma così sfuggente: è una consapevolezza che esonda nel territorio dell’assurdo. “Usa la forza, Luke!”, dice Obi-Wan Kenobi a Luke Skywalker. “Usa la forza, Antonella!”, mi dico io.
Ma questa forza che credevo di avere, questa forza che credevo fosse una cosa mia, mia come i miei occhi marroni, mia come la mia data di nascita, questa forza che è sempre stata una caratteristica del mio carattere da quando sono nata, adesso non funziona. Adesso non funziona più.
Possibile che sia diventata così debole?
Che mi stia facendo sopraffare così? Da una paura indefinita, da un’ansia indefinita? O meglio, da generici pensieri? Sono una persona adulta, prevalentemente sana, ho affrontato, come tutti, tanti momenti della vita molto più difficili di questo, ho una vita normale, faccio un lavoro che mi piace, ho degli amici. Mi sono successe delle cose brutte, ma succedono a tutti. Perché gli altri sanno gestirle e combatterle, e io sto soccombendo?
La risposta, dopo un anno e mezzo, ti viene naturale: perché gli altri sono migliori di te.
L’ho chiesto al professor Domenico Barrilà, psicoterapeuta e analista adleriano da oltre venticinque anni. L’ho chiamato per un’intervista, ma poi la prima cosa che gli ho chiesto è stata: “Gli altri sono migliori di me?”. Tutti a loro modo sono ansiosi. Tutti hanno avuto esperienze più o meno difficili. Perché gli altri sanno gestire l’ansia, perché gli altri stanno bene? Perché gli altri non hanno mal di testa? “Non è vero”, mi ha risposto lui. “La psicanalisi nasce proprio dagli studi su un fenomeno del genere”. L’isteria: manifestazioni fisiche di un trauma psicologico. “La psicologia studia l’individuo”, ha continuato. Tu non sei le persone, tu sei tu. Ognuno reagisce a modo suo. “Non hai idea di quanta gente presenti malattie psicosomatiche”.
Malattia psicosomatica. Non è mai bello associare a sé stessi la parola malattia. Non è mai facile. Eppure, sono milioni le persone che stanno come me. Milioni le persone che scrivono sui forum, si confrontano, cercano risposte. “Si guarisce?”, ho chiesto al professor Barrilà. E poi ho pensato: complimenti, quante domande intelligenti.
Eppure io queste domande avevo. Le domande che fanno tutti quando gli succede qualcosa indipendente dalla sua volontà. Perché succede? Passerà?
Una malattia psicosomatica è difficile da comunicare agli altri. Hai paura che ti penalizzi sul lavoro (ha sempre mal di testa, quanto potrà essere produttiva?). Hai paura che ti porti via gli amici, i parenti, il fidanzato. E in effetti in qualche modo te li porta via.
Un conto è se stai male un giorno, un conto è se stai – più o meno – male tutti i giorni, e però hai soltanto una piccola cosa come un mal di testa, non hai malattie gravi e in più, per tutti, questo male dipende solo da te. “Sei tu il peggior nemico di te stessa”. E’ vero. Ma questo nemico come lo sconfiggo?
Gli amici, i parenti, i fidanzati, i mariti, le mogli, i figli, piano piano si abituano a questo dolore latente che hai, che non si vede da nessuna parte, che non ha nessuna causa strutturale. Si abituano non perché siano cattivi. Perché è una risorsa dell’essere umano. Allontanare il dolore. Si abituano e tu li senti pericolosamente lontani (vorrei vedere te, con questo mal di testa). Prima invochi il loro conforto, poi li detesti perché non ti aiutano, poi capisci che non ti possono aiutare. E infine, di quel dolore non parli quasi più. Perché hai paura che ti penalizzi sul lavoro. Perché hai paura che ti porti via gli affetti.
Non voglio che qualcuno dica “tuo” per un mal di testa. Ma se è con te, dentro di te, per un anno e mezzo, come potresti non definirlo tuo?
Tutti a loro modo sono ansiosi. Tutti hanno avuto esperienze più o meno difficili. Perché gli altri sanno gestire l’ansia, perché stanno bene?
Nel suo meraviglioso Memoriale, Paolo Volponi scrive: “A quel punto io ero già all’altezza dell’orto di casa mia, quando finisce la salita e restano venti metri in piano per arrivare alla porta. A quel punto ho capito che nessuno può arrivare in mio aiuto”. E’ un pezzo a cui penso spesso, da quando l’ho letto per la prima volta.
Nel tempo, ha cambiato significato per me. Ci ho pensato così tanto che adesso non è più parte del libro, non ha più davvero a che fare, per me, con la storia di Albino Saluggia, protagonista del romanzo. Ciò che mi attira, ora, è la parola aiuto.
Se nessuno può arrivare in tuo aiuto, devi aiutarti da te. Che non è lo stesso che pensare, genericamente: “Usa la forza, Luke!”. È una consapevolezza più profonda. Venire in tuo aiuto è anche imparare a farsi aiutare (per esempio, non divertirti a terrorizzare i nuovi psicologi). Venire in tuo aiuto è perdonarsi per quello che sei, e per quello che non sei. Venire in tuo aiuto è imparare ad avere affetto per te.
Non darsi sempre tutte le colpe. “Usa la leggerezza, Luke!”. Usare la leggerezza.
Non sono cose facili. Anche se ti impegni con tutto te stesso, non è scontato riuscirci. C’è un carattere che è il tuo; quello sì, non il mal di testa. E con quel carattere devi avere il coraggio di fare i conti. La tensione dei muscoli del collo e della testa che mi causa la cefalea è, ha detto il professor Barillà, una reazione del mio corpo che è sempre sul chi vive. Come se ci fosse un pericolo di vita costante, e tu fossi sempre pronto a difenderti.
Come si guarisce?
Con coraggio, mi rispondo. A me piace la parola coraggio, è sempre piaciuta.
E sono convinta che può aiutare anche pensare che non sei l’unico al mondo per il quale uno stato psichico si manifesta in uno stato somatico. È per questo che ho scritto.
Se in questo momento non riesci a usare la forza, usa la leggerezza, Luke. E se non riesci nemmeno a usare la leggerezza, usa la debolezza. Quanta potenza incredibile nasce dalla fragilità. Cos’ho, io che è mio, oltre il mal di testa? La scrittura, per esempio. “Usa la scrittura, Luke”. C’è un modo possibile, forse, di rendere meravigliosa, piena di vita, anche la paura.