La Mostra di Banksy ora a Milano. Ma stampato su una t-shirt, la sorpresa finisce
La capacità di trasformare un luogo con un segno che lo contraddice, lo irride, ne fa emergere il senso e persino “lancia un messaggio” è la cosa che sorprende di più
Che effetto fa vedere Banksy in un grande museo, in una mostra come A visual protest. The art of Banksy al Mudec di Milano (fino al 14 aprile), curata da Gianni Mercurio, che sta avendo come ovvio e prevedibile un grande successo di pubblico? Un effetto ambivalente, e in questo anche divertente, come trovarsi nel trompe-l’oeil di un trompe-l’oeil. Il Mudec – il bel Museo delle culture di Milano, con la sua ambizione, o la sua necessità, di tenere insieme ricerca etnografica ed esposizioni blockbuster – è il posto adatto per una carrellata sul “writer di mercato”, in qualche modo il trompe-l’oeil di se stesso (o del lavoro collettivo che ci sta dietro). Si passeggia divertiti tra un’ottantina di lavori – dipinti, prints numerati in edizione limitata, fotografie e video, una sessantina di copertine di cd musicali e vinili di quando Banksy faceva anche questo mestiere (ma sempre in modo alternativo, oh yeah) e a un po’ di memorabilia. Ci si diverte, in alcune immagini, in alcune ossessioni simboliche o del tratto, un talento non banale. La capacità ideogrammatica di condensare in un’immagine sberleffo un “messaggio”, uno slogan. Un linguaggio pubblicitario nel senso nobile del termine, si potrebbe dire. Con tutta la contraddizione di una mostra di opere di Banksy. Si legge nella presentazione che “in linea con i principi di fruizione delle opere dell’artista non sono presenti in mostra suoi lavori sottratti illegittimamente da spazi pubblici, ma solo opere di collezionisti privati di provenienza certificata”. Che senso abbia la distinzione, laddove ci sono “ex” opere di street art che sono poi diventate multipli a stampa seriali, numerati e certificati dal notaio che cura la vendita, e dall’Iban apposito, è difficile dire. Qualcuno a nome del writer aveva fatto sapere ai media che la mostra milanese, così come tutte le altre, non era autorizzata. E’ di qualche giorno fa la notizia che Banksy avrebbe intentato una causa contro la società organizzatrice dell’esposizione del Mudec perché avrebbe prodotto dei gadget con le sue opere.
Ma a parte queste manfrine, che effetto fa andare a vedere Banksy al Mudec? Qualche tempo fa su Repubblica un critico appassionato e tutt’altro che accademico come Giuseppe Frangi aveva scritto (in seguito gli rispose sullo stesso giornale il curatore Mercurio, un filo più professorale) una notazione riguardo all’esperienza-visita al Mudec: “Il Banksy vero lo ritroviamo solo alla fine della mostra, quando ci viene presentata, attraverso materiali documentari, l’esperienza del Walled Off Hotel, il piccolo albergo che l’artista ha genialmente aperto a ridosso del muro a Betlemme. Oppure nella sequenza di video finale che raccoglie a raffica le sue imprese sui muri di tutto il mondo. Di quelle avremmo voluto sapere molto di più”. Vedere, testimoniate dai video, come sono “apparsi” e in che luoghi, e in quale grandezza naturale e proporzione, i lavori di Banksy è il lato più forte o spiazzante, di Banksy. La capacità di trasformare un luogo – un muro, uno scempio edilizio, un passaggio urbano – con un segno che lo contraddice, lo irride, ne fa emergere il senso e persino “lancia un messaggio” è la cosa che sorprende di Banksy. Stampato e incorniciato in salotto, o su una t-shirt, la sorpresa svanisce.