Padri e figli nella stanza profonda del '900. Il nuovo romanzo di Vanni Santoni
"I fratelli Michelangelo". Mondi interiori ed esistenza reale
Dieci alberi di nave, messi l’uno su l’altro, non fanno l’altezza da cui sei caduto perpendicolarmente: la tua vita è un miracolo”. E’ a questa citazione del Re Lear, da una delle sue scene più simboliche e difficili a rappresentarsi, che ho pensato terminando I Fratelli Michelangelo di Vanni Santoni (Mondadori), a sua volta imperniato sul medesimo scarto tra il dramma di certe aspirazioni interiori e la loro declinazione nell’esistenza effettiva, quotidiana, ma anche sulla prospettiva inversa, secondo cui persino i nostri balbettii più incoerenti sanno comunque esprimere una profondità metafisica.
Antonio Michelangelo, scrittore, regista, scultore, dirigente aziendale, ha avuto tre figli e due figlie da quattro donne diverse. Quando costoro sono ormai giovani adulti, decide improvvisamente di convocarli tutti (anche quelli che ignorano di essere effettivamente figli suoi o hanno patito rancorosamente la distanza e il misconoscimento) nella vecchia villa familiare a Vallombrosa. Chi deciderà di rispondere alla chiamata, ciascuno col proprio carico di aspirazioni e frustrazioni, col suo bagaglio d’eredità biologica e psicologica e il quid della propria personalità, lo farà da vari luoghi del mondo e con motivazioni altrettanto diverse. Jean Guitton consigliava il salutare esercizio critico di individuare la frase, nell’opera d’un determinato autore, che in qualche modo esprima in modo suggestivo il suo sguardo complessivo, la sua sensibilità sul mondo e sulla scrittura.
Nel caso di Santoni si può affermare che in fondo i temi affrontati dai suoi vari romanzi costituiscono altrettante “stanze profonde” in cui personaggi si muovono, dagli psichedelici alla cultura free-tekno, dai sogni alla narrativa fantastica. In questo caso il vasto salone dove Antonio e i suoi figli si aggirano è la seconda metà del Novecento italiano e, sovrapposto a essa, l’altrettanto ampio spazio della paternità e della figliolanza, richiamandosi fin dal titolo ai Karamazov e al confronto con un altro padre larger than life. I grandi archetipi narrativi rischiano facilmente di diventare stereotipi, e quando ci si accinge ad affrontarli di petto si rasenta pericolosamente quella che già Lewis definiva la sindrome del Tempio di Gerusalemme (per cui, dopo anni di abbellimenti e in gradimenti, alla fine lo Spirito si rifiuta di discendere e abitare l’opera che gli abbiamo innalzato); costituisce invece una gradita conferma constatare che Santoni ce l’ha effettivamente fatta e che, varcatane la soglia, anche questa stanza si rivela assai profonda, capace di raccontare così tanto e bene degli ultimi trent’anni della storia italiana; basti pensare al pageant dei tatuaggi sulla spiaggia di Viareggio, un vero e proprio petrarchesco Trionfo del Tempo: “A questo livello di diffusione sono proprio i mondi interiori a riverberarsi senza pietà sui corpi assieme alle epoche. I soli aztechi e il calendario maya, la Madonna, Ganesh e il Bafometto, l’acchiappasogni e gli esagrammi e il triskelion e la clavicola di Phu-Hi, le rune le stelle il sole e la luna, la coppa e la spada, la mano di Fatima e l’occhio di Ra, un sincretismo impazzito alla ricerca disperata di un senso oppure al solo servizio dell’accumulo”.
Un grande viaggio centrifugo e centripeto, capace di incarnare in sfaccettature sempre nuove il rapporto col sacro, la ricerca più o meno lineare della propria vocazione, del proprio “punto fisso” nella danza cosmica di Eliot, l’arte contemporanea, lo sport, la narrativa, i soldi facili coi traffici illegali, l’India dei guru e dei cani randagi e i giardinetti della Firenze degli anni Ottanta, i palazzetti dello sport in provincia e i ricevimenti berlinesi dopo le mostre, gli aspiranti scrittori ridotti a mettere sempre e solo voti alti nelle sedi italiane dei college americani e l’avvento del web. Come tutta la scrittura di Santoni, si tratta anche di un romanzo “sui romanzi”, sui linguaggi e sulle immagini antiche o recenti con cui abbiamo cercato di esprimere la dimensione profonda e autentica del nostro rapporto col mondo, e a tal riguardo dialoga esplicitamente col “Doktor Faustus” di Mann ma anche con la natura sci-fi di Vandermeer, i vocativi dei testi sapienziali orientali e la commedia all’italiana. George Santayana notò come “in natura tutto è lirico nella sua essenza ideale, tragico nel suo destino, e comico nella sua esistenza”. Anche qui, ciò che un tempo pareva destinato a risolversi tragicamente può scartare verso la farsa e demolire così tante narrazioni precostituite, i previi copioni che cerchiamo di far recitare ai nostri rapporti, eppure in ciò non si esprime alcun cinismo, bensì la tenerezza d’uno sguardo effettivamente alternativo sul nostro rapporto col passato privato e collettivo. Dopo tante fiacche imitazioni pedisseque e rabbiosi rigetti parimenti adolescenziali, alla cultura e alle generazioni del nuovo millennio è possibile scoprire e assumere un diverso atteggiamento nei confronti dei padri e del secolo tutto che li hanno preceduti e generati: la responsabilità di salvarli.