Olga Tokarczuk

Il viaggio che salva, il cuore di Chopin e il mondo senza confini de “I vagabondi”

Micol Flammini

La scrittrice polacca Olga Tokarczuk ci racconta gli intrecci tra la storia, la politica e la psicologia del suo paese

Dopo lo scandalo molestie che aveva annullato l'assegnazione del premio Nobel per la letteratura del 2018, il premio è stato assegnato oggi, giovedì 10 ottobre, a Olga Tokarczuk per la sua "immaginazione narrativa che con enciclopedica passione rappresenta l'attraversamento dei confini come forma di vita" e per aver costruito i suoi romanzi "con una tensione tra aspetti culturali opposti: natura versus cultura, ragione versus follia, uomini versus donne". Il premio Nobel per la letteratura del 2019 è invece andato allo scrittore austriaco Peter Handke.

 


 

Roma. Quando Olga Tokarczuk pubblicò “Bieguni” in Polonia era il 2007 e l’Europa era un altro posto. Aperto, senza il desiderio di confini, era il luogo del viaggio e della scoperta. Uscito in Italia dodici anni dopo con il titolo “I vagabondi” (Bompiani) e la traduzione di Barbara Delfino, è fatto di viaggi, di movimenti, di partenze e di qualche ritorno spesso doloroso. Nelle pagine del libro, si inseguono la psicologia, la storia e la politica. “A volte credo che questo romanzo dovrebbe essere letto come storico, è un epitaffio di un mondo che ora non c’è, pieno di un certo tipo di ottimismo, un mondo connesso, unito – racconta Olga Tokarczuk al Foglio – non ci sono confini nel mio libro. Scrivendo volevo dare l’idea del viaggiatore come un atomo in continuo movimento”.

 

 

 

Ne “I vagabondi” si intrecciano storie familiari e vicende storiche. C’è il viaggio del cuore di Chopin, portato da sua sorella Ludwika dopo la morte del compositore da Parigi a Varsavia, c’è il viaggio di un uomo che cerca sua moglie e suo figlio scomparsi durante una vacanza in Croazia, il viaggio nel proprio dolore di Filip Verheyen, l’anatomopatologo – Tokarczuk prima di scrivere questo romanzo ha anche studiato anatomia – che ha sperimento sul proprio corpo l’amputazione e il viaggio stesso di Olga in alcuni momenti del passato. “Tutti questi viaggi formano costellazioni, sono esperienze separate che però possono essere ricollegate su vari livelli psicologici, fisici e politici”. Dopo dodici anni sono cambiate molte cose, “la realtà è andata in un’altra direzione rispetto al libro”, scherza Olga che parla con voce pacata, quasi sussurrando. “Durante questi dodici anni c’è stata la guerra in Siria, poi la crisi dei migranti e le persone hanno iniziato a provare nostalgia per il passato. Ma è una nostalgia infantile, credere che il mondo del Ventesimo secolo fosse più sicuro non è la soluzione”.

 

La scrittrice polacca Olga Tokarczuk (Foto LaPresse)


  

Prima di diventare scrittrice, Olga ha lavorato come psicologa, si è laureata in Psicologia a Varsavia, dove la facoltà si trova in un edificio grigio, in quello che fu il quartiere ebraico della capitale, che durante la guerra veniva usato dalla Gestapo come centrale. Lì venivano portati gli ebrei prima della deportazione. La storia, per chi non la sa, viene raccontata da una targa, e Olga scrive che quel posto le appare ancora oggi in sogno “con i suoi larghi corridoi che sembravano scavati nella pietra e spianati dai piedi della gente (…) i corrimano levigati, le tracce impresse nello spazio”. Tutta l’area è stata interamente ricostruita o riadibita, gli studenti vanno a lezione, portano le loro speranze in un edificio che ottant’anni fa rappresentava la morte di ogni speranza.

 

Così la Polonia ha tentato di riprendersi, di riempire la storia di nuove storie e non sempre questa operazione è riuscita: “I polacchi sono un popolo radicato nel passato, celebrano, commemorano continuamente ciò che è successo. Da un lato credo che sia negativo, non riescono a liberarsi, come se rimanessero sempre con un piede fuori dal futuro. Dall’altro questo tormento per la storia può servire a non ripetere gli errori”. E poi c’è un terzo aspetto che caratterizza questa relazione tra i polacchi e la storia: “Spesso i politici giocano con la storia, diventa uno strumento nelle battaglie populiste e provano a cambiarla, e questo in Polonia sta accadendo ora”. E senza storia questo romanzo non sarebbe esistito. Il suo primo viaggio Olga Tokarczuk lo racconta all’inizio del libro, quando da bambina attraversò il campo a piedi e arrivò fino al fiume Oder, e la sensazione che i confini si fossero dissolti la scrittrice l’ha avuta a 28 anni quando Varsavia smise di essere comunista. Lei ricevette il primo passaporto e andò a Londra, da sola. In questo diario di storie in viaggio Tokarczuk racconta anche l’emozione personale e nazionale della libertà.

 

Nel frattempo molto è cambiato, l’Ue è cambiata e così anche la sua Polonia. Tutto è mutato con la storia, con le nuove crisi che alcuni partiti non sono stati in grado di fronteggiare e di cui altri, invece, si sono approfittati. Dal 2015 in Polonia è al governo il PiS, un partito che cinque anni fa si era proposto come euroscettico ma che ora ha limitato i toni dell’euroscetticismo: “È un partito populista e i populisti sono in grado di plasmarsi, intrufolarsi laddove vanno le richieste, le paure degli elettori, le loro svolte avvengono con il vento e la Polonia non è un paese euroscettico, anzi, l’80 per cento è europeista”. Con “I vagabondi” – che tra i vari premi ha ricevuto lo scorso anno anche il Man Booker Prize Internazionale – Olga Tokarczuk ha descritto l’irrequietezza umana, sua e dei suoi personaggi. L’irrequietezza che tanto fa paura ai “tiranni di ogni livrea”. L’irrequietezza così come era possibile dodici anni fa e così come lo è ancora.

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