La “riforma della riforma” di Bonisoli non ucciderà i grandi musei
Il ministro della Cultura in quota 5 stelle non ha smantellato le politiche del suo predecessore Franceschini. I manganellatori rinculano
Milano. Tanto manganellò che alla fine (forse) non piovve. Il bombardamento mediatico per abbattere la riforma Franceschini dei Beni culturali, a partire dai grandi musei (quasi) autonomi e dai loro direttori, ha provocato nelle ultime settimane una sollevazione di società civile e menti illuminate soprattutto davanti a casi manifestamente pretestuosi come quello del Caravaggio di Napoli negato a Capodimonte. Una crisi di rigetto, con effetto rinculo, riscontrabile anche in una maggiore prudenza in parole e programmi del ministro Alberto Bonisoli. In cima alle idee del ministro – in quota Cinque stelle e sotto tutela ideologica di quelli che Andrea Carandini, intervistato dal Foglio, chiama “i conservatori radicali” – c’è da sempre la “riforma della riforma”: così si chiama la commissione tecnica da lui istituita mesi fa, composta da uno staff di sua fiducia. Perché poi Bonisoli dovesse dedicarsi a riformare la riforma, resta misterioso: a fronte di una situazione del Mibact problematica, ad esempio la carenza di personale cui invece non si fa fronte. Le assunzioni della legge di Bilancio si sono trasformate in un annuncio di nuovi concorsi entro il 2019. Dovrebbero essere 3.600, ma entro il 2021, e le prime solo nel 2020.
Ma è più interessante notare che probabilmente gli appelli a non buttare le cose fatte sembrano avere prodotto qualche effetto. La commissione ha infatti concluso i pensamenti e nei giorni scorsi il ministro li ha illustrati ad alcune selezionate associazioni di settore, ha raccontato la sempre bene informata agenzia giornalistica AgCult. Pur nella nebulosità di un approccio tecnico-strutturale – Bonisoli ama concentrarsi sui “meccanismi di funzionamento” – si evince che lo smantellamento dovrebbe essere evitato. A partire dai due punti più critici, le Sovrintendenze uniche: una scelta razionale che però aveva irritato poteri settoriali spesso in conflitto di competenza. E poi l’autonomia dei grandi musei contro cui si erano scatenati i maggiori attacchi. Il cui obiettivo non mascherato era di riportarli nella diretta dipendenza dei sovrintendenti, togliendo l’autonomia progettuale (“valorizzazione” è la parola tabù) e anche amministrativa: prima, un museo come gli Uffizi non aveva a disposizione nemmeno un Iban. Rimarranno autonomi, ha fatto sapere il ministro, e anzi si rafforzeranno anche i Poli museali introdotti da Franceschini. Una buona notizia, anche se rimane ancora incerta la riconferma dei direttori, che scadono tutti a ottobre 2019. A giudicarli avrebbe dovuto essere una commissione di valutazione, ma per imperscrutabili motivi ministeriali non è mai stata istituita.
Pare che dovranno presentare una sorta di autocertificazione su concetti un po’ vaghi tipo l’impatto avuto sul proprio territorio. Però, ad esempio, i risultati gestionali – che prima Bonisoli aveva detto di non tenere in nessun conto – rientreranno invece tra i criteri di scelta. Con buona pace dei demonizzatori del “bigliettificio”. Non tutto sembra destinato a evolvere per il verso giusto, l’impostazione è centralizzatrice e i nuovi poteri che le direzioni generali dovrebbero assumere saranno da valutare. Ma intanto anche l’altra commissione messa all’opera dal ministro, quella per la revisione del rapporto tra pubblico e privato nella gestione dei beni culturali (questa sì più utile) sembra andare in direzione di una maggiore modernità e flessibilità che non piaceranno ai soliti noti (nessuno vuole dirlo, ma sotto esame c’è il Codice dei beni culturali ispirato da Salvatore Settis all’insegna della “conservazione”).