Perché Apple News potrebbe essere un gran rischio per la qualità dell'informazione
L'azienda tech vuole creare un “Netflix per le news” e il Wall Street Journal ha aderito. Il pericolo è trasformare le notizie in una commodity
Milano. Domani Apple presenterà il suo nuovo servizio di news, Apple News, che vorrebbe fare con l’informazione quello che Netflix fa con l’intrattenimento video e Spotify con la musica: chiede all’utente un abbonamento fisso e piuttosto basso per consumare tutte le notizie che vuole. Del progetto si è molto parlato, e un “Netflix per le news” è qualcosa di cui nell’ambiente si discute da anni: se la formula ad abbonamento ha salvato le case discografiche perché non dovrebbe salvare anche giornali e riviste?
Giovedì il New York Times ha cominciato a delineare il progetto, di cui dunque si può cominciare a parlare con un po’ di cognizione di causa. L’abbonamento, secondo le indiscrezioni, dovrebbe costare 10 dollari al mese (si parla di un servizio tutto americano per ora), e tra le testate che ne faranno parte si è aggiunto all’ultimo momento il Wall Street Journal. È la prima – e per ora unica – grande testata nazionale americana ad aver accettato le gravose condizioni che Apple impone a chi vuole entrare in Apple News. Queste condizioni sono: il 50 per cento degli introiti derivati dagli abbonamenti resta ad Apple, e l’azienda di Cupertino si tiene anche tutti i dati degli abbonati. Significa per esempio che i giornali non potranno fare campagne pubblicitarie sugli abbonati di Apple News, e quindi non potranno costruirsi un proprio pubblico: rimarranno clienti di Apple, non delle testate. Davanti a queste condizioni, il New York Times e il Washington Post hanno detto no grazie.
Il giornale di proprietà di Rupert Murdoch invece ha visto in Apple News un’opportunità, ma quando la notizia è uscita tutti hanno cominciato a fare i conti in tasca al Journal: un abbonamento annuale al quotidiano in formato digitale costa 396 dollari. Sono 33 dollari al mese. Se davvero Apple News costerà 10 dollari al mese (le indiscrezioni dicono che comunque non supererà i 20 dollari) significa che i lettori potranno avere il Wall Street Journal a un prezzo scontato di due terzi (e ricordiamo che al Journal arriva soltanto la metà degli introiti e che questa metà è da dividere con altre testate: alla fine arrivano pochi spiccioli per utente). Non sappiamo quali accordi ci siano tra Apple e Murdoch, magari il Wsj non cederà tutti i contenuti ma soltanto alcuni, ma anche così c’è una bella differenza economica. La speranza, ovviamente, è che Apple News diventerà così popolare da consentire a giornali come il Journal di fare economia di scala: nel 2018 il Journal aveva 1,6 milioni di abbonati digitali, ma Apple News ha il potenziale di raggiungere 50 o perfino 100 milioni di utenti paganti, e a quel punto potrebbe valerne la pena.
C’è tuttavia un secondo problema. Una notizia non è come una canzone. Gli 1,6 milioni di utenti digitali che nel 2018 hanno sborsato 400 dollari per leggere il Wall Street Journal l’hanno fatto perché riconoscono alla testata un altissimo valore, e sanno che la qualità del giornalismo del Journal ha pochi pari nel mondo. Ma cosa succederà quando per leggere una notizia sulla guerra commerciale tra Cina e Stati Uniti gli utenti apriranno la app di Apple News sul loro iPad e gli eccellenti articoli del Journal saranno affiancati ad articoli di siti meno blasonati?
Questa si chiama commodificazione. Le commodity sono come il petrolio: che il greggio lo estragga Eni o che lo estragga Bp sempre di petrolio si tratta. Ecco, il rischio di una app come Apple News è che le news diventino una commodity. Su Spotify e Netflix le cose funzionano in maniera differente perché tutti associano le canzoni (o le serie tv) ai loro autori/artisti. Ma trent’anni di internet ci hanno insegnato che le news sono materia sfuggente, e che per il lettore medio un articolo sulla trade war è tale sia che lo scriva una testata di eccelsa qualità sia che lo scriva un sito raffazzonato. Le testate suddette ci hanno messo anni e una fatica immane a convincere di nuovo i lettori che vale la pena sborsare 400 dollari all’anno per il giornalismo di qualità. Adesso forse rischiano di fare un passo indietro: dopo essere sopravvissuti all’epoca del “tutto gratis”, i media si avventurano nell’epoca del “tutto a dieci euro”.