La danza di Magda Szabó
“Per Elisa”, il romanzo della scrittrice bambina e dell’Ungheria, il cuore dolce della Mitteleuropa che abbiamo rimosso e che Orbán continua a negare
Magda Szabó è la scrittrice dell’Ungheria. Non il paese che Vicktor Orbán ha in mente, ma il pezzo più dolce di quella Mitteleuropa dispersa, molti decenni fa, dalla divisione in est e ovest dell’intera Europa.
Provate a camminare per Budapest con un libro di Szabó in mano: vi si avvicineranno in tanti, vi chiederanno di dove siete, quali altri suoi romanzi avete letto e perché e cosa ne pensate. In Ungheria leggono tutti molto, anche i senzatetto, e i libri sono un fatto identitario. Monika Szilágyi, editrice di Anfora Edizioni che ha un amore particolare per Magda Szabó, ha detto a Rivista Studio: “C’è qualcosa che accomuna le città dell’Europa centrale che, da Milano a Budapest, da Vienna a Praga, sono state parte dell’Impero asburgico. Questa matrice comune, se uno ci pensa, è stata l’inizio dell’Europa”. E invece non ci pensiamo mai, mediterraneocentrici come siamo, abituati a far coincidere la Mitteleuropa con Vienna, Salisburgo, forse Praga, i cioccolatini, Mozart, l’Ottocento, la Sachertorte.
Chi ha espanso, avvalorato, esportato, riconosciuto la Grecia antica e la cultura classica più dei mitteleuropei?
Tra le argomentazioni dell’antieuropeismo spicciolo degli albori (ricordate quando, durante la crisi greca, eravamo tutti classicisti uniti contro Angela Merkel?), c’è sempre stata la supposta inconciliabilità tra un greco e un tedesco, un italiano e uno svedese, un ungherese e uno spagnolo. Abbiamo spesso tirato in ballo la cultura ellenica e classica per sottolinearne l’estraneità a quella mitteleuropea, eppure chi ha espanso, avvalorato, esportato, riconosciuto la Grecia antica più dei mitteleuropei? I romani che la divorarono e la usarono per imbellettarsi? Nessuno ricorda mai quanto, della cultura classica, Nietzsche e Hölderlin indicarono molto lucidamente: la consustanzialità tra dionisiaco e apollineo; l’assenza di un nucleo autoctono; l’identità rintracciabile nel conflitto, nella convivenza di opposti. La polis fu avversa agli estranei, ai barbari: continuiamo a ripeterlo e, con grande indelicatezza, vogliamo ignorare il prodigio che sta nel fatto che una civiltà con quel limite politico, fu capace di esprimere una cultura che vide nelle opposizioni la fonte della vita. Invece, un’enorme trascuratezza culturale ha consentito di manipolare lo spirito classico per teorizzare il fallimento ontologico del progetto europeo, in quanto atto a unificare opposti.
In moltissimi romanzi di Magda Szabó c’è una possente smentita di tutto questo e, soprattutto, c’è la prova di come la dolce Mitteleuropa fosse fieramente impregnata di spirito classico. Certo, lei ha vissuto per novant’anni in quell’altro mondo che è stato il Novecento, l’avo brontolone che facciamo di tutto per lasciarci alle spalle. Novant’anni e un mese, per l’esattezza. E’ nata nel 1917 ed è morta, in modo molto novecentesco, mentre leggeva un libro, nel salotto di casa sua, il 19 novembre del 2007, quando Victor Orbán cominciava a riguadagnare terreno (dopo aver guidato il paese dal 1998 al 2002), battagliando contro il partito socialista: aveva già molto a cuore la sovranità nazionale, che in Ungheria è una faccenda seria, piantata in una ferita aperta e forse incurabile. Il nemico giurato di Orbán non era ancora l’Europa, e allora sarebbe stato complesso immaginare che oggi quel premier sarebbe finito a sbarrare gli accessi, diffondere falsi allarmi e cartelloni burloni per inasprire l’euroscetticismo del popolo che guida, trovare in Salvini e nella sua destra che più che destra è nichilismo (così ha scritto Nicola Mirenzi su Linkiesta), un alleato formidabile. Ágnes Heller, filosofa di Budapest e cosmopolita “oberata da troppe identità” (così si autodefinì anni fa) ha spiegato a Micol Flammini, su questo giornale, come Orbán abbia “decostruito la democrazia liberale e sostituito la realtà con l’ideologia” spostando il potere a destra anche se Fidesz era, da principio, un partito di sinistra.
Quindi, dieci anni fa Orbán era quasi un insospettabile, se non per tutti, almeno per molti. Per Szabó forse no, chissà, ed è bello immaginare che non sia del tutto una coincidenza il fatto che il suo ultimo romanzo, “Per Elisa” (edito in Italia da Anfora, che la prossima settimana ne pubblicherà la nuova edizione) racconti una storia sull’apertura, e sia uno dei più importanti romanzi di tutto il Novecento europeo sul confine, sull’identità e sulla relazione dell’uno con l’altra. E’ bello immaginare che Szabó avvertisse l’importanza di testimoniare cosa accade quando si comprende che esistiamo nel rapporto con gli altri assai più che in quello con gli eventi e con la provenienza, e che per farlo avesse scelto la storia più ungherese di tutte, quella dell’adozione di un’orfana vittima di una spartizione territoriale, di un muro, di una chiusura, di un rattrappimento del paese intero, una vicenda con la quale dimostrare che si può essere fratelli di storia, oltre che di sangue.
Non che avesse intenti politici, Szabó: non ne ebbe mai. E come avrebbe potuto, lei che dalla politica era stata prima derubata di un riconoscimento importante (il premio Baumgarten assegnatole nel 1949: glielo levarono letteralmente dalle mani) e poi tenuta lontana dalla scrittura, perché non corrispondeva al paradigma socialista che in quegli anni andava affermandosi: “troppo intimista”, le dissero. Gli uomini di Mátyás Rákosi, “il miglior discepolo ungherese di Stalin”, trovavano la letteratura di Szabó pericolosamente nostalgica del passato, reazionaria, clamorosamente immaginifica. L’Ungheria fece parte del blocco sovietico e fu, di fatto, un regime di stampo socialista, dal 1949 al 1989 (gli anni della Repubblica popolare d’Ungheria): a Szabó venne impedito di pubblicare qualsiasi cosa, anche poesie, dal 1949 al 1958. Per sopravvivere, dovette accontentarsi di fare l’insegnante, ruolo che ricoprì con grande amore ed enorme dedizione, e che l’aiutò a decidere di non lasciare mai il paese, cosa che molti altri intellettuali della sua generazione fecero (Sándor Márai e Ágota Kristóf i più famosi), guadagnandone uno smarrimento perpetuo di cui scrissero sempre, da letterati erranti, esuli, apolidi, sperduti, infelici, incapaci di perdonare il proprio paese e di farvi ritorno. Scapparono gli intellettuali e scapparono, non molto dopo, anche i loro persecutori e censori. Lo scrisse lo stessa Szabó, con grande ironia: “Un’illustre personalità dell’èra Rákosi da un mio volume di poesie aveva dedotto una simbologia per cui io esprimevo il desiderio di tornare al vecchio mondo. Quanto era inutile la sua preoccupazione per la patria, che poi fu lui ad abbandonare, non io”.
“Ero figlia di due esseri meravigliosi, nella casa della mia infanzia ho avuto la sensazione che brillassero non uno, ma due soli”
Szabó è morta a Budapest però era di Debrecen, il cuore calvinista dell’Ungheria; una provinciale “fin troppo debrecenina” che il padre aveva fatto di tutto per aprire al mondo, soprattutto all’Europa, ma che anche solo alla capitale del suo paese diceva di essersi assuefatta a fatica, “se mai mi sono assuefatta”.
Chissà se, ovunque sia ora, prova rammarico per essere morta in una città che sentiva sua per metà, convinta come doveva essere che il posto in cui si muore è importante e determinante al pari di quello in cui si nasce, visto che secondo lei “i morti non è affatto vero che muoiono, chiunque abbia un morto a cui ha voluto bene sa fino a che punto egli muoia e continui a vivere”. Era la memoria, per lei, a rendere impossibile la morte: “Nella sua vita postuma, il morto sarà più attivo e più aggressivo di quanto non fosse da vivo, e costringerà il vivente, con la forza del ricordo, a cose delle quali anche lui si stupirà”, scriveva nel 1972, in un breve saggio indirizzato alla rivista Contemporaneo (oggi si trova in appendice al romanzo “La notte dell’uccisione del maiale”, pubblicato pochi mesi fa da Anfora edizioni). “Per Elisa” è un libro di memorie, e di memoria, ed il romanzo che Szabó scrisse per ultimo, a 85 anni, inconcluso perché avrebbe dovuto scriverne un seguito, una seconda e una terza parte, ma non fece in tempo o non volle davvero o non avrebbe potuto, perché se è vero che non si muore, è anche vero che l’ultimo libro di uno scrittore è il meno concluso e il più aperto di tutti i suoi. “Per Elisa”, infatti, finisce in un viaggio in treno, e la frase dell’ultima pagina non ha il punto, ma tre, quelli che chiamiamo “di sospensione”, che però lì non sospendono, bensì segnalano che c’è ancora da dire, da raccontare, da scrivere. “Caramelle, cioccolata, seltz ghiacciato, preparato di fresco…”, è un invito alla scelta, un accesso al futuro.
“Per Elisa” è il romanzo dell’infanzia di Magda Szabó ed è anche il romanzo dell’Ungheria, perché la vicenda che racconta è incastonata nei due momenti che hanno trasfigurato il paese: il Trianon e l’avvento del regime socialista. Nel 1920 il paese viene mutilato di molti dei suoi territori (il 71 per cento), ripartiti tra Romania e Cecoslovacchia, dal trattato del Trianon firmato dai paesi dell’Intesa, vincitori della Prima guerra mondiale. In pochi giorni, 11 milioni di ungheresi si ritrovano a non essere più ungheresi e diventano clandestini in casa propria, irregolari a cui viene data la caccia, con la ferocia e la foga delle sbornie identitarie. Le città si riempiono di profughi, molti dei quali sono bambini che hanno perso i genitori. Tra di loro c’è Chili, una bambina rimasta viva per caso, coperta dai corpi di sua madre e suo padre. Magdolna, che è l’alter ego romanzato di Magda Szabó in questa biografia sua e della nazione, ed è una bambina acuta e precoce, coltissima e parecchio superba, si ritrova davanti una sconosciuta, di cui le viene detto: questa è la tua sorellina, bisogna volerle bene. Suo padre, il signor Szabó, l’aveva salvata e adottata senza preavviso, senza pensarci: l’aveva vista e l’aveva portata via con sé.
“Per Elisa” racconta una storia di apertura ed è uno dei romanzi più importanti del Novecento sul confine e l’identità
La prima reazione di Magdolna è parecchio simile a quella che ha avuto Salvini con la Diciotti. E anche la seconda. E anche la terza. Poi, però, le due bambine imparano a conoscersi, accettano il dovere di diventare una famiglia e lo trasformano in un diritto d’amore, si alleano, crescono insieme. Il romanzo le segue per quasi vent’anni e così fa anche con l’Ungheria, che è dappertutto: sullo sfondo, nei legami, negli ostacoli, nella fede, nei perché. Ed è un’Ungheria fantasiosa, libera, tenue, dolce, calvinista, giocosa, raffinata: è incredibile che al regime parve reazionaria. Tutt’altro. Non esiste un angelo domestico, in “Per Elisa” come neanche in “Abigail”, il romanzo che riprende i temi, a Szabó molto cari, dell’infanzia e della guerra che entra nella vita dei ragazzini. E non esiste perché a casa Szabó i genitori civilizzavano anziché educare (“Le troveremo un istituto dove la inciviliranno fino a farla diventare una perfetta europea”, dice il padre alla madre). “Ero figlia di due esseri meravigliosi, nella casa della mia infanzia ho sempre avuto la sensazione che brillassero non uno, ma due soli, e non solo di giorno, ma anche di notte”, ha scritto Szabó, che alla felicità dei suoi primi anni di vita ha dedicato la gran parte degli scritti raccolti ne “Il vecchio pozzo”. C’è, nel racconto che la debrecenina fece dell’incontro tra adulti e bambini, in quel civilizzare anziché educare, un’assenza pazza e stupenda: la gerarchia. “Ma perché non funziona l’idea che l’ordine possa generarsi anche da un’amichevole chiacchierata?”, si è chiesto Claudio Bisio a Sanremo, nel suo monologo sulla paternità. Una cosa che fanno, gli adulti e i bambini, nella letteratura di Szabó, è questa qui: chiacchierare. E decidere giocando molto, facendo tantissimo teatro. L’infanzia di Szabó assomiglia a quella di “Fanny e Alexander” di Bergman, anche loro circondati da grandi giocherelloni, colti, appassionati, disinteressati all’autorità e all’educazione, ma coinvolti nella civilizzazione, nel crescere e far sbocciare nuovi uomini e nuove donne appassionati e appassionanti, fantasiosi, liberi, affrancati dalle tracce di chi li ha preceduti e generati. La novità di Szabó è una unicità che il regime non poteva capire e che, pertanto, scelse di fraintendere e capovolgere. Autrice reazionaria, sciò, kaputt. Lei reazionaria! Lei che era convinta che la Madonna fosse uomo perché era stato suo padre a nutrirla per i primi due anni della sua vita, dal momento che sua madre tanto ci mise a guarire dalla febbre da puerpera; lei che era stata cresciuta circondata da maschi senza diventare maschiaccio mai, tanto da convincersi che la Madonna fosse un uomo. Lei, una reazionaria!
Se è vero che non si muore, è anche vero che l’ultimo libro di uno scrittore è il meno concluso e il più aperto di tutti i suoi
La novità di Szabó era la fame di spazio e di mondo di adulti che avevano visto ritagliare il proprio paese, e avevano compreso che il solo modo di difendersi dall’usurpazione è legare la propria cittadinanza alla fraternità e non ai diritti di nascita. Orbán vuole e capeggia un’altra Ungheria, un paese che, a una ristrettezza imposta dalla storia, vuole rispondere restringendosi ancora di più; un paese che non s’accorge che, così facendo, porta in trionfo il Trianon, la sua più grande tragedia. “Ci servono più bambini ungheresi e in generale più bambini europei cristiani”, ha detto il premier magiaro il mese scorso, presentando la sua nuova politica demografica in un discorso sullo stato della nazione: è una posizione non semplicemente ridicola, ma pure drammatica, che chi governa un paese che ha vissuto la tragedia degli orfani del Trianon non dovrebbe neppure pensare.
Leggi “Per Elisa” oggi e ti chiedi se davvero sia esistito un paese così orrendamente mutilato eppure tanto incredibilmente brioso, aperto alla fantasia. Se davvero agli inizi del Novecento, in un posto occidentale a metà, spezzettato e strappato da sorellastre cattive come quelle di Cenerentola quando le ridussero il vestito della festa a brandelli, poteva esistere un padre alto borghese capace di dire, alla figlia che gli confessava d’essersi innamorata del suo professore, “Piccola mia, non misurare la correttezza di un uomo dal suo livello di cultura” e “Ti innamorerai sempre con il cervello, e grazie a Dio non sei frigida”, parlandole, di tanto in tanto, in latino.
Il Trianon, la spartizione col righello e i fucili, l’identità ricamata su un paese con il quale improvvisamente non s’è ritrovata più a coincidere, il grigiore socialista, la guerra, la fame, la morte che non muore: niente di tutto questo infiacchì mai, in Szabó, la ragazzina.
Szabó, con la nostra Morante, ha condiviso l’idea che la Storia sia una dittatura, un potere incoercibile non degli uomini sugli uomini ma della debolezza umana sugli uomini, e alla stregua di Morante è stata accusata di patetismo impolitico e dannoso, una specie di nichilismo zuccheroso e da femminuccia. Sapeva, Szabó, che il mondo lo salvano i ragazzini, che sanno essere feroci di quella ferocia innocente che carbura la sopravvivenza, e che sanno soprattutto diventare fratelli. Dall’Ungheria, la letteratura mondiale ha ricevuto alcuni tra i libri più intensi e terribili sull’impossibilità di trovare un posto in cui sentirsi a casa, quando si è costretti a fuggire dalla propria; su cosa sia l’esilio; sullo strazio di non riuscire più ad avere fiducia nell’appartenenza; sulla violenza che l’Europa, nel suo ricostituirsi dopo le due guerre mondiali, perpetuò sui popoli, tentando di convincerli che l’identità fosse un registro a cui potersi iscrivere o cancellare a proprio arbitrio. Al mondo, Szabó ha consegnato una letteratura che cerca una casa che sa introvabile, un’identità che si sa plurale, in metamorfosi costante; una letteratura che scopre che la possibilità, per gli esseri umani, sono gli altri esseri umani.