Più vero del vero. Alla ricerca del falso assoluto
Il pittore che vuole dipingere il Vermeer mancante. Il collezionista che pensa di riscattarsi dagli insuccessi d’artista. Gli inganni e le bugie in Orson Welles e i quadri di Beltracchi nei musei. Fake, una mini antologia
È da pochi giorni in libreria “Maledette Belle Arti”, l’ultimo libro di Ugo Nespolo. Edito da Skira (128 pp., 22 euro), il volume raccoglie gli articoli dell’artista pubblicati sul Foglio dall’ottobre 2017 al dicembre 2018. La prefazione è di Felice Cimatti, nutrito l’apparato iconografico.
Forse l’arte non è altro che un gioco scenico, una finzione. Senza voler scomodare il filosofo tedesco neokantiano Hans Vaihinger, il suo Finzionalismo e la sua filosofia del come se, vien da dire che in arte i concetti di vero e falso non rispondono che alla dittatura del giudizio, attribuzione e riattribuzione, e sono valori opinabili che oscillano e mutano col tempo. Come per un gioco radicale e irriverente proviamo adesso a rivoltare la frittata. Cominciamo col dire che l’artista è il falsario di sé stesso. Trascina – spesso a fatica – la propria monotonia creativa per alimentare e rimpinguare il mercato che da par suo combatte, detesta e teme l’eclettismo, l’espansione multiforme della personalità, il saltello, lo sberleffo, il balzo laterale, la novità. Ripetizione indifferente in stretto obbligo al presunto stile, all’interessata mania egocentrica.
Il falsario vive invece a pieno la condizione eclettica, il gesto teatrale, la menzogna colta, l’als ob. Ai livelli alti incarna in qualche modo l’uomo del Rinascimento per capacità esecutiva, adattamento psicologico continuo, sfida e maschera. Raramente il denaro è il suo solo fine. Per l’artista lo è quasi sempre. Conviene buttar l’occhio a una mini antologia in quattro tempi fatta di personaggi, eventi e accadimenti paradigmatici. Lenta, pesante la Torpedo Dodge Dh mascherata da una severa coltre di polvere grigiastra che cancella il suo nero scintillante s’inerpica per le tortuose, difficili strade che da Ventimiglia salgono per scendere improvvise – curva dopo curva – sino a Roquebrune Cap Martin. Mare abbagliante a lampi, sempre a sinistra, tra ripide pareti di verdi accesi e rocce scheggiate. Un film, un incanto. Nulla sa Han del suo motore a valvole laterali, dei suoi sei cilindri in linea da 3.466 centimetri cubi e ancor meno dei suoi sessantotto cavalli di potenza. Un gioiello tecnico nato nel novembre 1930.
L’artista è il falsario di sé stesso. Trascina, spesso a fatica, la propria monotonia creativa per alimentare e rimpinguare il mercato
Facile con quei 40.000 fiorini comprare quell’auto di lusso senza aver idea di come guidarla, anzi senza saper guidare del tutto. Per l’uomo conta solo allontanarsi dall’Olanda al fianco della splendida moglie Yolanthe e filare giù dove i colori inebriano, verso l’accecante sud della Francia e poi forse verso l’Italia, quella dei grandi maestri da sempre studiati e amati. Han Van Meegeren pare finalmente sereno, quasi felice. Il suo primo Vermeer era andato senza problemi a quel tal Tersteeg che aveva da fare con la Galleria Goupil dell’Aia. Gentiluomo e donna con la spinetta, da considerare in fondo una sorta di prova generale per quell’idea che da tempo gli frulla in capo. Han vagheggia di produrre un capolavoro che possa brillare nello scarno corpus di opere della Sfinge di Delft e finalmente beffare tutti.
Un falso Heinrich Campendonk di Wolfgang Beltracchi (particolare)
Questa volta tutto è filato dritto, non come al dannato tempo del rifacimento del Cavaliere sorridente alla maniera di Frans Hals, messo in opera per l’amico Theo Van Wijngaarden e che l’eminente critico De Groot non aveva esitato a definire opera di notevole bellezza e autenticità. La Casa d’Aste Muller & Co aveva sborsato 50.000 fiorini e rapida l’opera era passata di mano in mano fino al momento in cui Abraham Bredius, il maggior studioso dell’antica pittura olandese, lo aveva bocciato senza remissione come falso. Furioso l’amico Theo, umiliato e distrutto Han, che aveva profuso in quell’opera tutta la vasta sapienza tecnica appresa in anni di studio accanito dei valori tecnico-pittorici di quel Gouden Eeuw, il Secolo d’Oro in cui l’Olanda aveva vissuto persino l’imbarazzo della propria ricchezza. Dodicenne, aveva iniziato a produrre i propri colori come i maestri antichi evitando da subito i facili e traditori tubetti pronti di Winsor & Newton. Mortai in vetro per la mestica, e poi i pigmenti, riscaldare i minerali, i metalli e le terre, le lacche, i quarzi e le potasse fino al nobile e costosissimo lapislazzulo per certi blu magici, ultraterreni.
Il falsario vive a pieno la condizione eclettica, la menzogna colta. Ai livelli alti in qualche modo incarna l’uomo del Rinascimento
Nel suo documentatissimo libro I was Vermeer, Frank Wynne lascia intendere lo scoramento di Han e la cocente sconfitta, per quell’opera in cui aveva profuso perfezione tecnica fatta di pigmenti originali e di astuzie tecniche capaci di evitare le prove in grado di smascherare zone di rifacimenti o di interventi sospetti. Ma ora con gli occhi colmi dell’azzurro lancinante del Mediterraneo, cullato dai movimenti ritmici della costa bizzarra, stava ricacciando dentro il ricordo ruvido dell’ombrosa e brumosa Olanda. Attento alle curve improvvise che scendono sino all’Avenue Paul Doumer, risale con qualche incertezza verso l’Avenue des Cyprés dove sa di una splendida residenza da affittare. La Villa Primavera si staglia imponente tra il verde rigoglioso e le rocce frastagliate sulle alture di Cap Martin. Amore a prima vista. Pareti di stucco giallo rosato, torri, scaloni e scale a chiocciola, terrazze e balconi per scorgere laggiù il mare e Montecarlo in basso a ovest. Dal 1932 al 1938 Han e Joanna lì vivranno una gloriosa stagione fatta di lusso, ricevimenti, incontri, balli mentre Han spende le sue intense giornate diviso tra i ritratti della nobiltà e dei notabili internazionali che affollano la costa e i segreti del suo studio segreto nel seminterrato. Sente vicina l’ora della rivincita morale che possa lenire le delusioni brucianti e i torti patiti da quei critici e mercanti che avevano irriso o ignorato le sue opere nelle due mostre olandesi del 1917 e 1922. Impegno e razionalità da subito alla creazione del mitico Vermeer mancante, quell’opera religiosa che Bredius vagheggia da anni nei suoi dotti scritti. Mentre la vita della coppia brilla in eccessi mondani Han s’appresta con rigore e metodo a mettere insieme gli elementi che, mossi dal suo enorme talento, possano portare alla nascita del capolavoro sognato.
Falsa la maggior parte delle opere offerte al Metropolitan di New York La vendita di autenticità, “perversione costante del nostro tempo”
Viaggia all’Aia alla ricerca di una grande tela del Diciassettesimo secolo da ripulire e portare allo stato originale, dà il via alla produzione dei colori usati dal maestro di Delft. Gommagutta, piombo-stagno, ossido di mercurio, terra verde, terra d’ombra, nero d’osso e macina grossa proprio come gli antichi. Per indurire la pittura e renderla inattaccabile alla prova dell’alcol ha la genialità di preparare una vernice resinosa a base di fenolo e formaldeide – la formula della Bakelite in pratica – che riscaldata intorno ai 100 gradi e unita al pigmento e all’olio di lillà genera una patina solida dal sapore antico da completare poi con le craquelures prodotte arrotolando la tela su un cilindro metallico e naturalmente invecchiarle con polvere scura. Adesso Han può mostrare quanto vale, non vuole copiare, giustapporre elementi di opere diverse, ora l’obbligo è dipingere il capolavoro assoluto. Lavora senza posa sei mesi alla Cena in Emmaus e molto più tardi dichiarerà: “… volevo creare un’opera d’arte che stupisse il mondo e confondesse i miei nemici”. Davvero ci riuscì. Il grande Bredius accolse l’opera come un’illuminazione da tanto tempo sognata, la dichiarò autentica e straordinaria e ne scrisse pagine molto convincenti. Il Museo Boijmans di Rotterdam espose colmo d’orgoglio l’opera acquistata con una sottoscrizione al prezzo di 500.000 fiorini, l’equivalente di cinque milioni di dollari.
Han Van Meegeren vagheggia di produrre un capolavoro che possa brillare nello scarno corpus di opere della Sfinge di Delft
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La fiammante Corvette rossa Sting Ray Cabrio fila svelta sulle strade tortuose che da Sant Josep de Sa Talaia portano alla Falaise, l’elegante villa in stucco bianco nella zona alta della città di Ibiza. Chi guida non sa nulla del suo motore Big Block da 425 cavalli né dei freni e sospensioni di nuova concezione. È l’estate del 1964. Alla guida un uomo elegante di mezza età che tutti conoscono come Elmir Dory-Boutin, collezionista d’arte. Racconta con parsimonia d’esser nato a Budapest nell’aprile del 1914 da nobile famiglia ungherese, padre ambasciatore, madre di una famiglia di banchieri. Studi artistici in età giovanissima a Nagybánya poi all’Akademie Heinman in Germania, a Monaco. Nel ’26 è a Parigi, iscritto all’Académie de la Grande Chaumière, allievo di Fernand Léger. Forse tutto prende il via in un fresco pomeriggio d’aprile del 1946 quando un’amica, Lady Malcolm Campbell, visita il suo piccolo atelier in Rue Jacob a Parigi. Sul muro un disegno di Elmyr alla Picasso. Madame lo pretende e lo paga dando – in qualche modo – il via a una carriera che durerà molti anni e porterà Elmyr da un continente all’altro, da un’avventura all’altra sempre in bilico tra glorie e angosce.
Un torrente di personalità scorre nelle vene di Elmyr: Modigliani, Matisse, Renoir, Picasso, e sono disegni, guazzi, olii. Una sorta di funambolismo che lo esalta e lo riscatta dagli insuccessi di artista in proprio. Raffinato e discreto, vive un amore profondo e infelice per l’arte indissolubilmente legato all’odio spiccato per il sistema che lo ha rifiutato o ignorato del tutto. L’Isla Blanca è davvero il set ideale per un intreccio avvincente di verità e menzogna, isola popolata di personaggi che intorno a Elmyr tramutano in continuazione la falsità del vero fino a riuscire a render veridico il campo illusorio, un gioco di abile prestidigitazione. Il destino ha tribolato la vita intera di Elmyr, dalla sua detenzione in campo di concentramento per essere ebreo e omosessuale sino alla parabola finale fatta di overdose di sonniferi nel dicembre del 1976.
Dal 1932 al ’38 Han e Joanna vissero a Cap Martin una gloriosa stagione fatta di lusso, ricevimenti, incontri, balli
Colto poliglotta, manovra e viene manovrato dai due ex amanti e mercanti geniali e senza scrupoli, Fernand Legros e Reál Lessard, che collocano in tre continenti i falsi dipinti dei Maestri del Novecento. Elmyr provava grande soddisfazione per l’incapacità della critica e degli esperti nel saper giudicare e li considerava – in qualche modo – suoi complici nell’opera di falsificazione. E poi c’è Fake!, la vera storia di Elmyr narrata nel 1969 in uno straordinario libro di Clifford Irving. Libro nato a Ibiza dopo una lunga serie di incontri, dialoghi, confessioni dalle quali emergono mezze verità, tesi opinabili e dove soprattutto brilla la messa in luce di una vita lontana dai codici, inquieta, ansiosa, orgogliosa e tribolata. Ma Clifford Irving è egli stesso un grande giocoliere, un falsario capace di vendere all’editore americano McGraw-Hill la falsa autobiografia del miliardario Howard Hughes da tempo ormai volontariamente recluso. Condannato a 17 mesi di carcere, fa in tempo a partecipare nel 2015 a Puerto Rico alla realizzazione del film Hoax con Richard Gere, film che narra quella storia misteriosa in cui nessuna verità pare con chiarezza farsi valere.
Nel 1973 sulla scena compare prepotente la corpulenta, enigmatica figura di Orson Welles che sta mettendo in scena una sorta di strano antifilm. Ė F for Fake, che – come egli stesso dichiara – ha da fare con Elmyr de Hory, Clifford Irving, Howard Hughes. Welles si presenta per quello che è, un prestigiatore, un giocoliere, un mago che tende a non rivelare mai i suoi trucchi. “I’m a charlatan” dichiara. Film sugli inganni e le bugie, poiché – dice – ogni storia è una sorta di menzogna, un gioco di vero e falso. Un gioco anche di specchi dai mille riflessi iridescenti. Un prestigiatore che narra la storia di un sedicente biografo il quale scrive di un artista che a sua volta gioca con i falsi, il tutto legato alla rocambolesca storia del misterioso e introvabile Hughes. Film di montaggio dalle pretese teorico-filosofiche sui concetti di illusione e realtà. Un gioco d’incastri, un jigsaw puzzle dove il tassello più pungente pare proprio quello – anch’esso menzognero – in cui Elmyr cerca di convincere Clifford Irving di non avere mai firmato i suoi falsi. Welles si chiede se in fondo un capolavoro perde la sua aura se la sua firma è assente o non nota.
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Sulla Bundesautobahn 5 da Frankfurt a Friburg la Porsche 997 turbo bianca fila veloce con i suoi 3.600 centimetri cubi e i 480 cavalli. Al volante un biondo, capelli lunghi alle spalle, camicia a fiori, la musica alla radio confonde l’animato dialogo con la moglie Helen. Ė Wolfgang Beltracchi, artista e fuor di dubbio uno dei più raffinati falsari d’ogni tempo. All’inizio del 2000 nessuno conosce Wolfgang, anche se da diversi anni lavora senza tregua e con un talento impareggiabile a produrre opere di grandi artisti del Novecento, tra cui brillano Heinrich Campendonk, Max Ernst, Fernand Léger, Kees Van Dongen. Non copia per niente, semplicemente – come dirà poi – realizza quelle opere che gli artisti avrebbero voluto realizzare. Son centinaia i lavori di qualità impeccabile e avviati verso musei di tutto il mondo (alcuni dei quali lì ancora son rimasti), case d’asta, collezioni importanti in patria e nel mondo.
“Volevo creare un’opera d’arte che stupisse il mondo e confondesse i miei nemici”. Ci riuscì, il quadro fu esposto al museo di Rotterdam
Le sue opere possono essere state viste al Metropolitan a New York o all’Hermitage a San Pietroburgo o nei maggiori musei francesi e anche pubblicati a piena pagina negli eleganti volumi dei capolavori del XX Secolo. Con facilità stampati sulle copertine dei ricchi cataloghi delle principali case d’asta. La provenienza delle opere che passavano di mano in mano di avidi esperti, mercanti, collezionisti, era meravigliosamente costruita: un’eredità di Helen, opere raccolte intorno agli anni Venti, nomi autentici di nonni e bisnonni che avrebbero avuto rapporti col grande collezionista Alfred Flechtheim.
Furono arrestati il 22 agosto 2010 a Friburgo e condannati a pene lievi da scontare in prigioni aperte. Il bianco titanio aveva tradito l’artista, non la qualità delle sue invenzioni. La scoperta del suo talento al servizio del falso ha aperto un dibattito profondo e non privo di conseguenze e di questioni tutt’ora aperte. Beltracchi compariva felice e rilassato al processo, sempre sorridente mentre la sua fama cresceva, e confermando la falsificazione di 14 opere aggiungeva che in realtà i suoi lavori sono alcune centinaia. La sua figura e il suo talento hanno prodotto in Germania una sorta di consenso, un’ammirata simpatia, la sua figura è stata addirittura definita come qualcosa che sta tra quella di un Cristo redivivo e un Albrecht Dürer.
Die Zeit vorrebbe una grande mostra dei falsi di Beltracchi, la Faz scrive di come abbia dipinto il più bel Campendonk di sempre
Julia Michalska in Art Newspaper scrive di come i media tedeschi riservino un’aperta simpatia per Beltracchi. Die Zeit vorrebbe una grande mostra dei suoi falsi mentre la Frankfurter Allgemeine scrive di come Beltracchi abbia dipinto il più bel Campendonk di sempre. Ancora il giornale riporta che “la falsificazione in arte è la maniera meno immorale di appropriarsi di 31 milioni di euro per 14 opere”. Lo Spiegel osserva pungente: “Paragonato ai banchieri ladri, Beltracchi e i suoi non hanno raggirato la gente comune e rubato i loro risparmi ma soltanto persone che han voluto essere raggirate”. Opinioni estreme ma che han da fare con il sentimento comune non privo di una certa ammirazione per quei personaggi dalle doti fuori dal comune.
Libri, mostre, filmati, interviste raccontano di un Beltracchi rilassato e appagato, tanto che all’intervistatore della Cbs che gli chiede se ha visto sue opere esposte nei musei sorridendo risponde “Sì, in tantissimi musei, sono uno degli artisti più presente nei musei!”. E anche “Lei ha sconvolto l’artworld e ha messo i critici in a very nervous position, erano disattenti, incompetenti?”. “Niente affatto, tutti bravissimi ma ero io a essere troppo bravo.” La verità è che oggi dopo l’affare Beltracchi gli esperti sono terrorizzati all’idea di esprimere i loro giudizi. Molte fondazioni come quella di Warhol, De Kooning, Haring, Basquiat han chiuso i battenti e non ci sarà forse più la possibilità di aver giudizi certi o certificati per le loro opere.
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Un torrente di personalità scorre nelle vene di Elmyr. Un funambolismo che lo riscatta dagli insuccessi di artista in proprio
Il cielo si fa scuro. Il taxi Nissan Nv200 Van fatica a filare veloce sulla Nassau Express verso il JFK Airport a New York. A bordo un cinese settantacinquenne, Pei-Shen Qian, guarda fisso le luci che corrono lontane. Vicino a lui la vecchia moglie Qiu Yue Xu. Sono silenziosi, immobili. La loro meta è Shanghai, da dove son venuti molti anni prima e dove ogni anno passano alcuni mesi. Stavolta però è per non tornare mai più. Qian è un artista e vive in una casetta di legno alla 95esima strada a Woodhaven, in Queens. Non vuol più saperne di quei due, Gloria Rosales e José Carlos Bergantinos Diaz. Non ha mai incontrato Ann Friedman né visitato a New York la Knoedler Gallery fondata nel 1846. Per 15 anni ha lavorato per poche migliaia di dollari all’invenzione tecnicamente strabiliante di opere dei maggiori artisti della New York School. Pollock, Barnet Newman, Robert Motherwell, Richard Diebenkorn, Mark Rothko e gli altri proprio come gli chiedeva di fare Gloria Rosales. Esposte in musei e vendute ai maggiori collezionisti del pianeta a suon di molti milioni di dollari. Pian piano il castello è venuto giù trascinando in rovina la Knoedler Gallery fino alla chiusura definitiva e mostrando ancora una volta il volto sfacciato e marmoreo del sistema di connivenze che regge gli accordi spesso non taciti del sistema dell’arte fatto di critici, mercanti, case d’asta e collezionisti e per ricordare ancora – ce ne fosse bisogno – che solo ciò che costa vale!
“F for Fake”, film sugli inganni e le bugie, poiché – dice Welles – ogni storia è una sorta di menzogna, un gioco di vero e falso
Ancora Frank Wynne scrive che Thomas Hoving, già direttore del Metropolitan Museum of Art di New York, ricorda che il 60 per cento delle opere offertegli in sedici anni di carriera al museo erano da considerare false. Il New York Times sentenzia da par suo che più del 40 per cento delle opere di rilievo messe in vendita non sono altro che dei falsi. “… già nel 1940 Newsweek osservava che delle 2.500 opere dipinte da Jean-Baptiste Corot, soltanto nelle collezioni americane se ne trovavano 7.800”. Per Nick Groom, professore dell’Università di Exeter, la vendita di autenticità è “la perversione costante del nostro tempo. La si asseconda come un vizio, la si abbraccia come una virtù […] tutto ciò che tocca si trasforma in oro… in questo senso è il marchio del genio, il tocco di Mida, l’apoteosi del capitalismo”.