Nella terra di Omero
Ai bambini non servono i fatti, ma le storie. Quelle del mare e dello Stretto raccontate da Nadia Terranova
Il mondo salvato dai ragazzini è una storia, e una ragione per raccontarla, inventandola sempre un po’, riaccomodandola. Siamo le storie che ci vengono raccontate da bambini e che, a un certo punto, da grandi, vengono a prenderci, ci chiariscono chi siamo e ci fanno dire: mi chiamo così, sono nato qua, le cose che so da sempre sono queste, insieme alle favole che mi raccontavano.
I ragazzini che salvano il mondo sono gli adulti che raccontano ai loro figli quelle stesse storie, e le correggono, le aggiustano o le sgorbiano, magari le confondono. Non importa: “Le storie sono vere nel momento e nel modo in cui decidiamo che lo sono”, scrive Nadia Terranova nella nota finale del suo nuovo libro, “Omero è stato qui” (Bompiani), dove ha raccolto le leggende e i miti del suo mare, che è minuscolo ma tiene dentro due mari che “si uniscono in mezzo a due terre che invece non si uniscono mai, anche se da certe prospettive può sembrare di sì perché sono molto vicine”.
E’ il mare dello Stretto, affollato di fantasmi, ninfe, mostri, fate, eroi, ricordi. Storie. Storie che da piccola Terranova ascoltava in casa, o per strada, e poi ritrovava a scuola, nel libro di tutti, l’Odissea, scoprendo così che Cola Pesce, Scilla, Cariddi, le sirene, Mata e Grifone esistevano da prima di lei e della sua famiglia, e non erano soltanto suoi, e non li aveva inventati (o visti) sua nonna, ma un tizio cieco, che forse non era neppure mai nato, o che era un insieme di altri tizi con ottimo eloquio e fervida immaginazione, tale Omero, uno che “forse non è mai esistito, però di sicuro una volta è stato qui”.
Ai bambini non servono i fatti, ma le storie: sanno che la verità sta lì, e ha poco a che fare con quello che si vede, ma ha tutto a che fare con quello che s’inventa per spiegare quello che si vede e si trasforma, con l’intenzione, con la fede. Le storie che hanno accomodato la realtà quando la scienza era poca, e più insufficiente di adesso, ci parlano ancora perché sono vere, pure se non sono mai esistite, e Terranova ha deciso di raccontarle mostrandole nuove, anche se sono vecchie come il mondo e come la vita, che la puoi fare a pezzi o sederti e guardarla passare, in riva al fosso o in riva al mare. Viene voglia di essere un aedo, o un genitore, o un maestro, o uno di quei pazzi bellissimi che s’incontrano sui tram e dicono cose, per poter avere un bambino a cui leggere i miti dello Stretto.
In mancanza di bambino fuori di voi, questo libro leggetelo al ragazzino dentro di voi, vi farà bene, e potrete sempre stupire qualcuno raccontandogli di come Cola Pesce abbia sacrificato la sua giovinezza per andare a sorreggere la Sicilia, che altrimenti sarebbe sprofondata; e immaginare che, quando la terra trema, laggiù, sia perché Cola ha le spalle stanche sarà sempre un buon modo per perdonare Dio o la sua assenza o il destino per i disastri che succedono e non dovrebbero.
L’unione di opposti
“Quando vedo un uomo che nuota dipingo un annegato”, ha scritto Jacques Prévert ne “Il porto delle nebbie” e nessuno lo sa meglio dei siciliani, da sempre, da prima che Scilla e Cariddi venissero trasformate in mostri, come punizione l’una per non essersi concessa e l’altra per aver osato troppo; in nessun mare come quello dello Stretto annegare significa desiderare e trasformarsi, unirsi con l’opposto e l’ignoto, più che perdersi o scomparire.
E’ dal mare che arriva Hassan Ibn-Hammar, il guerriero mussulmano che a Messina s’innamora di Mata, la figlia di Cosimo II di Castellaccio, e la chiede in moglie, ma sia lei che suo padre tentennano perché lui non è cristiano, però quello insiste, affama la città pur di averla, tortura il suo custode e le si getta ai piedi promettendole di convertirsi e così lei cede, si innamora, lo sposa, e tutti chiamano lei e lui I Giganti, perché sono alti, corpulenti, lei bianca e lui nero, e i siciliani e i calabresi, ogni anno, d’estate, fanno dei grandi pupi di cartapesta che sono i Giganti, e li portano a sfilare per le strade, per ricordare che per amore si cambia, ci si converte e che l’amore è l’unione di opposti, di stranieri, di una luce e di un’ombra.