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L'antimodernismo aristocratico s'è trasformato in pappa populista

Antonio Gurrado

La coraggiosa ripubblicazione degli scritti di Rosario Assunto

Bouvard e Pécuchet si vestirebbero così: giubbotto, maglioncino e berretto da ciclista; eviterebbero la cravatta, “contrassegno di perbenismo borghese”, e opterebbero per un “guardaroba populista” non troppo dissimile, ora che ci penso, dalla divisa da propaganda di un Donald Trump. Rosario Assunto avanzò quest’ipotesi sul vestiario dei conformisti già a metà degli anni Settanta. Il filosofo nisseno, specialista di estetica e studioso di Kant, Kleist e Baumgarten, teneva una capricciosa rubrica sul periodico L’Europa in cui prestava voce a personaggi letterari, componendo apocrifi del dottor Faust, di Diotima e Lucinda, di Swann, di Gulliver e così via. Questi brani, ora coraggiosamente ripubblicati dall’editore Nino Aragno sotto il titolo “Intervengono i personaggi (col permesso degli autori)”, nel 1977 furono riuniti dalla Società Editrice Napoletana in un volume presto introvabile: erano il frutto dell’isolamento intellettuale che Assunto patì a seguito del suo rifiuto del Sessantotto e del pencolare dell’estetica verso la semiotica. Quando morì, nel 1994, aveva cessato di pubblicare coi grandi editori degli esordi e l’unico contatto col vasto pubblico erano occasionali elzeviri sul Tempo.

 

Oggi però l’elitario Assunto concorderebbe con quella maggioranza che detestava, con la modernità che rifuggiva al punto da lanciarsi in invettive contro i pantaloni delle donne, l’adolescenza turpiloquente o il citofono. Lette a posteriori, le pagine che scrive contro le grandi opere infrastrutturali – ai suoi tempi si parlava del ponte sullo Stretto come oggi si parla della Tav, che probabilmente farà la stessa fine – sembrano ricalcare i luoghi comuni dei regressisti e dei nostalgici dell’immaginario: “Quando sarà costruito il ponte”, scrive, “e renderà più veloce lo spostamento degli uomini, il trasporto delle merci, allora, con i fichi d’India e le zagare e le araucarie sarà spazzato via definitivamente l’immobilismo che i sociologi non si stancano di deplorare. Il tempo, che quaggiù in certi istanti sembra essere ancora immagine mobile dell’eternità, avrà subito una accelerazione che con uno strappo violento spezzerà il cordone che lo congiunge a sua madre. Ben diversamente intendono il tempo coloro che qui, sullo Stretto, hanno programmato il ponte, e sulla costa, poco più a nord, vagheggiano stabilimenti industriali, dove sono boschi d’ulivi e d’aranci; e si adoperano affinché in questi mari nessuno più peschi il pesce spada, nessuno vi sia nelle campagne a coltivar melanzane, peperoncini di fuoco; e fichi più dolci di certo miele”.

 

Cos’è successo? Le aristocratiche idee di Assunto si sono massificate o la modernità è diventata antimoderna? Ad Assunto risale una militanza in favore della conservazione dell’ambiente come pura struttura estetica, da non sottoporre a necessità funzionali ma tale convinzione affonda in una contrapposizione ancora più radicale. Esistono due idee di tempo, argomenta. Una è lineare e quantitativa, che potremmo definire cristiana o meglio ancora calvinista, visto che collega il concetto di progresso alla massima, tipicamente capitalista, che il tempo è denaro. Assunto predilige invece la concezione circolare, qualitativa e platonica, “dove temporalità assoluta è quella dell’istante”. Fautori e avversari del progresso, sostiene, si suddividono in base a questa discriminante. Se non che oggi a essere di vasto consumo non è solo l’elogio dell’immobilità, fraintesa per lentezza, ma la contrapposizione fra ponte e pesce spada (oppure melanzane), ossia fra progresso e natura: luogo comune talmente diffuso da aver condotto a uno sciopero giovanile mondiale che ad Assunto avrebbe fatto orrore.

 

Una traslazione culturale, uno smottamento intellettuale ha reso pappa pronta populista l’albagia reazionaria di un intellettuale asserragliato. Forse, più che nel contenuto, la soluzione del busillis sta nella forma. Non è un dettaglio che Assunto faccia esprimere le proprie idee a personaggi immaginari, che nei libri godono di “una realtà non soggetta alla inesorabile legge del prima e del poi, perché in essa sempre deve ancora accadere quello che sappiamo essere già accaduto”. In essi ravvisa l’antidoto alla riduzione dell’arte a “funzione di comunicare esteticamente”, della parola “da formale a funzionale”, della scienza in tecnologia volgare e meccanica, della filosofia a “formulazione di proposizioni verificabili e operative”. L’ideologia, per non dire cosmologia, delle odierne masse ambientaliste e ostili al progresso, invece, non sembra elevarsi al di sopra di questo funzionalismo. Non sposta il dibattito su un piano metafisico, eterno, ma si pregia di contrapporre obiezioni preconcette che a dati contrappongono dati di diversa scelta: uno dice che la Tav favorirà gli scambi e loro rispondono che non li favorirà, uno dice che la Tap migliorerà la qualità della vita e loro rispondono che non la migliorerà, il tutto nell’ambito di una faticosa dimostrazione razionale dell’indimostrabile, di un calcolo micragnoso dell’incommensurabile.

 

Qui sta il guaio del passaggio del conservatorismo dall’élite al popolo, dagli Assunto ai No-tutto. Il filosofo riteneva che l’incontro con la bellezza, nell’arte o nell’ambiente, ricomponesse in noi “il costituzionale dissidio tra l’infinità del pensante e la finitezza del vivente”, consentendoci di “giudicare il mondo temporale e spaziale del proprio essere un vivente-finito”. Il conservatorismo populista invece non opera quest’innalzamento ma pretende di restare sul piano del concreto così che la stessa identica idea, se pronunciata da Assunto, suoni giusta; se ripresa dal volgo, per niente.

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