Tuffarsi con Laura Laurenzi nella Roma scintillante e viva prima dell'abisso

Anselma Dell'Olio

Il nuovo romanzo sulla “madre americana”

Laura Laurenzi è una scrittrice di costume di ottimo livello e gran cantastorie. Ha scritto cinque libri per diversi editori (il penultimo “Smeraldi a colazione”, su e con l’effervescente, scomparsa Marta Marzotto) le cui pagine si leggono come si consumano le noccioline americane; pensi di mangiarne poche, e finisci per scofanarle tutte. Non fa eccezione il sesto, “La madre americana, un’educazione sentimentale nell’Italia della Dolce Vita” (Solferino). E’ tutto questo ma è anche l’avvincente racconto di formazione di una bambina nata nei primi anni Cinquanta, quelli della Hollywood sul Tevere, della Città Eterna “aeroporto internazionale del mondo”, come scriveva Alberto Arbasino.

 

  

Roma allora era la capitale più cosmopolita d’Europa: passioni, liti e bizze di divi, star, politici e vip internazionali erano documentate dai paparazzi su un’ampia rosa di rotocalchi, con articoli divorati dal pubblico. Il buon vento del Piano Marshall, oltre al boom economico aveva portato a Roma anche Elma Baccanelli, che sarebbe diventata la moglie di Carlo Laurenzi e la mamma di Laura. In divisa da soldato Usa, la figlia di romagnoli emigrati in Usa, Elma era a capo della prima agenzia per gli affidi a distanza, il “Foster Children’s Program”. Oggi opera in altri paesi disastrati ma negli anni del Dopoguerra, esistevano sacche di povertà a dir poco da Terzo Mondo in tante parti d’Italia. Quest’autentica miseria del sottoproletariato italiana è stata documentata dalla “Trilogia della Grazia” di Federico Fellini (prima di “La dolce vita”, che in realtà celebrava il decesso di quell’epopea): “La strada”, “Il bidone”, “Le notti di Cabiria”, un mondo sommerso molto meno raccontato di quello degli operai e professionisti afflitti da violenze e indigenze di cui si è occupato ampiamente il neorealismo. Alla fine ne ha salvati quasi dodicimila di bambini, la yankee Elma Baccanelli, grazie alla quale hanno potuto anche studiare, oltre che mangiare e vestirsi in modo acconcio, invece di crescere come mocciosi dickensiani senza futuro, sfruttati e brutalizzati per una crosta di pane.

 

La mamma americana organizzava per i figli feste di Halloween, ancora totalmente sconosciuta da noi, con premio per la befana più mostruosa, detto “Premio strega” dalla sorniona moglie straniera di Carlo Laurenzi (“L’amarissimo che fa benissimo”, come lo descriveva Montanelli), algido intellettuale del Corriere della Sera che si concedeva poco alle quisquiglie dell’infanzia, preferendo sciorinare ai ragazzi detti latini e motti in rima. Oppure c’erano le Musical Chairs, gioco musicale tipicamente statunitense, a sottrazione improvvisa di sedie che ha reso esilaranti le festicciole anche per i ragazzi più timidi. Eppure il bel bouquet di costumanze americane ereditate, resta una curiosità forastica per la figlia, vissuto come bagaglio materno mai assimilato, stranezze esotiche di una madre diversa dalle altre. E’ curioso come Laura, a differenza dell’amatissimo fratello Martino, sia rimasta sempre di un’italianità a quattro carati. Però la ami quando scrive che ha “sempre detestato chi schernisce gli scout”, così simile alla mamma che si urtava in silenzio quando sentiva qualche sbruffonata derisa come “un’americanata”. La mela non cade lontano dall’albero.

 

Il libro è un’elegia per una madre morta a cinquant’anni ma è anche molto altro. E’ zeppo di aneddoti e personaggi sorprendenti, affascinanti e divertenti, da Franco Piperno a Carlo Levi, da Ennio Flaiano a Giorgio Bassani, da Demos Fidani, regista di spaghetti western ed esoterista dotato, a Angelo Lombardi, “L’amico degli animali” della Rai Tv di allora. Il padre ha perfino conosciuto l’impareggiabile Gustavo Adolfo Rol, il taumaturgo di Torino, amico fidato di Fellini e Einstein, i cui inspiegabili, irriproducibili prodigi lasciavano questo giornalista ultra laico talmente disorientato, da convincersi che era stato “ipnotizzato”; non c’erano altre spiegazioni. Per chi ricorda quegli anni, che includono la contestazione e la conseguente rivoluzione dei costumi degli anni Sessanta, il libro è un amarcord profondamente avvincente, e per i più giovani, una scoperta della storia recente del loro paese, su Roma Caput Mundi ancora una volta, scintillante, emozionante, prima di sommergersi di nuovo come le antichità.

 

Laurenzi, nota per la penna asprigna, qui è toccante nel suo orgoglio non banale per una madre dirigente, capo di un’agenzia che disponeva di fondi e potere, così diversa dalle mamme borghesi dei Parioli dove viveva la famiglia Laurenzi, tutte gioielli tintinnanti, tè e canaste con le amiche: aveva un lavoro, uno stipendio, una missione. Cosa che fa specie alla figlia, ché in quegli anni erano rarissime le mogli che i colleghi colti del padre portavano alle cene. Erano relegate a figli e focolare mentre loro, gli chicconi colti, uomini di mondo, inviati speciali, si dilettavano con Martini, amanti e buone conversazioni; la moglie sepolta viva, un lascito ottocentesco. La sola donna che spicca, oltre le meravigliose e diversissime nonne, è la Dark Lady Teresa Foscari Widmann Ressonico Foscolo, musa di Bassani e modello ideale di Micol, la protagonista di “Il giardino dei Finzi-Contini”, romanzo schizzato dagli snob del Gruppo 63 come romanzo rosa, che però sarà letto e amato quando i loro perlopiù illeggibili libri “sperimentali” saranno relegati a note a piè di pagina di qualche polverosa tesi di laurea.

 

L’amore di Laura per il padre è cantato anche quello ma in modo più sommesso, sotterraneo, riservato come la natura di Carlo Laurenzi. Qui le parole dell’autrice assomigliano a come dipingeva Carlo Levi, che dipingeva il ritratto di Elma nella penombra, senza bisogno di accendere la luce quando calava il crepuscolo, lui che era in pratica cieco, nel suo atelier a Villa Strohl-Fern “cuore verde di Villa Borghese, dove avevano i loro studi i pittori della Scuola romana.” Rimasto vedovo a quarantanove anni il padre, che a lei sembra un Matusalemme, il genitore sopravvissuto è saldato nel cuore di Laura, che vuole finire il suo racconto con la sua morte nel 1969. Come marito lei ha scelto il compianto Enzo Bettiza, epigone del padre nel carattere e nella professione di scrittore e giornalista di un altero distacco, elegante e discreto. Fate attenzione alla scrittura di Laura Laurenzi, fluido, di livello, che non richiama mai l’attenzione su stessa. Alla sua prosa si potrebbero applicare le parole con le quali Manlio Cancogni definisce il suo amato amico Carlo: “Lo stile, l’asciuttezza, la misura.”

Di più su questi argomenti: